Finalmente sta per arrivare quel periodo bellissimo in cui ci si accoccola sul divano, ci si copre con un pannino leggero e si legge tanto, perché il tempo è propizio. Infatti, le case editrici sono pronte a sfornare grandi quantità di libri nuovi, per accontentare i lettori e le lettrici più voraci. Vediamo un po’ cosa ci riserva questo settembre 2023!
Questa Storia di Roma è stata scritta, tra il 1830 e il 1831, da un giovane professore di Storia Antica della Scuola Normale di Parigi: Jules Michelet. L’autore aveva appena 32 anni ma presto sarebbe diventato (grazie anche a questo volume) un grande storico e uno dei maestri della storiografia europea. In effetti quest’opera è stata ammirata per la solidità della concezione, per la profondità della preparazione erudita ma, soprattutto per una straordinaria potenza evocatrice di un periodo storico immortale per il mondo intero. Nel narrare le vicende di Roma, Michelet riesce a far rivivere lo slancio appassionato delle sue anonime masse popolari che, mentre conquistavano il mondo, dovettero sostenere aspre e secolari lotte interne contro i privilegi aristocratici per le conquiste delle libertà e dell’eguaglianza sociale. E Roma sarebbe perita se questa lotta popolare non avesse trionfato con Cesare, affossatore della potenza aristocratica del Senato e fondatore di quell’Impero che doveva stringere insieme i popoli con l’estensione a essi della cittadinanza romana e la loro eguaglianza di fronte alla legge. Ecco, ben definita, la missione di Roma: stabilire il diritto universale a vantaggio di tutte le epoche dell’umanità.
In una Parigi pittoresca e spaventosa, due giovani donne vengono trovate pugnalate in circostanze insolite: la prima galleggia senza vita nella Senna dopo essere entrata nella Camera degli Orrori del museo delle cere Augustin, la seconda viene rinvenuta morta tra le braccia del “Satiro della Senna”, una statua dello stesso museo. Il giudice istruttore Henri Bencolin, un esperto di crimini “impossibili” dall’aspetto burbero e “satanico”, conosce personalmente il proprietario di questo luogo fantasmagorico e non sa resistere a un mistero del genere. Insieme all’amico Jeff Marle indaga sui pochi indizi a disposizione e scopre un passaggio segreto che dal museo delle cere conduce al famigerato “Club della Chiave d’Argento”, un luogo di lusso e perdizione i cui membri esclusivi passano il tempo mascherati in cerca di nuovi intrattenimenti. Bencolin e Marle si introducono nel club, ma dietro la facciata dorata troveranno una vecchia e pericolosa conoscenza…
Holly Gibney è tornata. Uno dei personaggi più amati dai lettori e dal suo stesso autore sarà protagonista di un nuovo agghiacciante caso.
Quando Penny Dahl chiama l’agenzia Finders Keepers nella speranza che possano aiutarla a ritrovare la sua figlia scomparsa, Holly Gibney è restia ad accettare il caso. Il suo socio, Pete, ha il Covid. Sua madre, con cui ha sempre avuto una relazione complicata, è appena morta. E Holly dovrebbe essere in ferie. Ma c’è qualcosa nella voce della signora Dahl che le impedisce di dirle di no. A pochi isolati di distanza dal punto in cui è scomparsa Bonnie Dahl, vivono Rodney ed Emily Harris. Sono il ritratto della rispettabilità borghese: ottuagenari, sposati da una vita, professori universitari emeriti. Ma nello scantinato della loro casetta ordinata e piena di libri nascondono un orrendo segreto, che potrebbe avere a che fare con la scomparsa di Bonnie. È quasi impossibile smascherare il loro piano criminale: i due vecchietti sono scaltri, sono pazienti. E sono spietati. Holly dovrà fare appello a tutto il suo talento per superare in velocità e astuzia i due professori e le loro menti perversamente contorte.
Augias ripercorre la vicenda di Paolo, nei momenti topici della sua vita pubblica e religiosa che ce lo hanno fatto conoscere come l’uomo che “inventò il Cristianesimo”.
Personaggio cruciale e misterioso al contempo, uomo di intelligenza, forza e volontà fuori dal comune, Saulo di Tarso, meglio conosciuto come Paolo, fu colui che raccolse l’irripetibile magistero di Gesù di Nazareth e lo canonizzò, forgiando il Cristianesimo per come lo conosciamo oggi. Fine mediatore da un lato, ma decisionista politico dall’altro, Paolo seppe traghettare un’esperienza spirituale in un’istituzione storica giunta più o meno immutata fino ai nostri giorni, assurgendo così a figura fondamentale di tutto il mondo cristiano. In questo suo nuovo libro, al contempo saggio e narrazione, quindi sicuramente ascrivibile al genere della narrative non fiction, Corrado Augias ci offre una cronaca meravigliosamente raccontata: con la sua capacità di ricostruire e analizzare la Storia e la sua attitudine divulgativa, Augias ripercorre la vicenda di Paolo, nei momenti topici della sua vita pubblica e religiosa che ce lo hanno fatto conoscere come l’uomo che “inventò il Cristianesimo”.
Esemplare della turbolenta e tortuosa storia medievale, il racconto dell’ascesa e del declino normanno è un avvincente susseguirsi di fortune conquistate e perse, che lo storico britannico Levi Roach ripercorre in queste pagine ricostruendone al contempo la straordinaria, e spesso dimenticata, eredità. Perché «il mondo moderno sarebbe irriconoscibile, se i normanni non avessero lasciato la loro impronta».
Nel dicembre del 1212, il giovane Federico II, nipote del leggendario imperatore Federico Barbarossa, uscì dal duomo di Magonza nelle vesti di sovrano di Germania. Il ragazzo, però, non era tedesco. Il puer Apuliae era un normanno italiano, e come monarca normanno si apprestava a governare sulla Sicilia e il Sud Italia. Con lui, il potere e l’influenza degli «uomini del Nord» avrebbero raggiunto il loro apice sul continente europeo. Discendenti dei predoni vichinghi, che con le loro scorribande all’inizio del X secolo avevano gettato le basi del futuro ducato di Normandia, i normanni estesero il loro dominio dalla Francia settentrionale all’Inghilterra, dall’Irlanda al Mediterraneo, dalla Penisola iberica all’Anatolia bizantina. Sotto gli stendardi di condottieri feroci e ambiziosi, essi costruirono chiese e castelli, fondarono dinastie e regni vigorosi, ridisegnando ovunque le mappe del potere. Allo stesso tempo, nel corso della diaspora si integrarono rapidamente con le popolazioni locali sconfitte e sottomesse, mescolandosi al tessuto della società, adottando la lingua e la cultura delle élite, mettendo radici. Onnipresenti ed elusivi, introdussero princìpi e valori che nel corso dei secoli plasmarono il volto dell’Europa: gli ideali cavallereschi, l’architettura romanica, il cattolicesimo e la vicinanza al pontefice di Roma, come pure un nuovo atteggiamento nei confronti della legge e della giustizia. Eppure, dopo trecento anni di vittorie e successi travolgenti, i normanni all’improvviso scomparvero, vittime probabilmente di un’identità fluida e camaleontica, di una mancanza di unità che impedì loro di sopravvivere al mondo che essi stessi avevano forgiato.
Capovolgi il romanzo. Scopri la verità.
Inghilterra, 1881. «Turnglass House ha sempre avuto qualcosa di corrotto e maligno.» Questo è tutto ciò che il giovane medico Simeon Lee sa quando arriva a casa dello zio, il parroco Hawes, per curarlo. Una sola finestra illuminata, un orizzonte sospeso sul vuoto, una palude fangosa pronta a inghiottire i pochi che osano avventurarsi. Lo zio è convinto di essere stato avvelenato e i suoi sospetti ricadono su Florence, la cognata. Immobile, con addosso un abito di seta verde e un sorriso beffardo, Florence li fissa dalla cella di vetro in cui si trova segregata da quando, in un raptus di gelosia, ha ucciso il marito. Molti la considerano pazza, ma secondo Simeon è una figura tutta da decifrare. Come tutto da decifrare è il volumetto rosso che spicca nell’immensa biblioteca dello zio e che lei continua a indicargli. Un libro che racconta una vicenda ambientata nel futuro e che tuttavia potrebbe rivelare qualcosa sul presente. Un libro che parla di un’altra terra, la California, in un’altra epoca, il 1939, che pure ha tanti punti in comune con la storia di questa famiglia inglese. La storia di un uomo che indaga per scoprire cos’era accaduto alla madre, scomparsa vent’anni prima… California, 1939. Quella dello squattrinato Ken Kourian è una vita divisa tra provini cinematografici e lavoro in un giornale, finché incontra Oliver Tooke. Affascinante, mondano e insieme riservato, Oliver è un celebre scrittore figlio del governatore della California. Da qualche tempo appare incupito, e la pubblicazione del suo nuovo romanzo sembra angosciarlo. Una sera, arrivato a casa sua, Ken fa una scoperta sconcertante: lo trova riverso sulla scrivania, il collo lacerato da un proiettile, la pistola nella mano. La morte viene presto archiviata come suicidio, ma Ken non è convinto e decide di indagare. Le ricerche lo portano sulle tracce di una vecchia storia, quella del misterioso rapimento del fratello di Oliver e della scomparsa della madre. Una famiglia sfortunata. O forse, una famiglia che nasconde troppi segreti. Ken è convinto che per scoprire la verità dovrà decifrare gli indizi nascosti nell’ultimo libro dell’amico. Un libro che parla di un’altra terra, l’Inghilterra, in un’altra epoca, il 1881, che pure ha tanti punti in comune con la storia di questa famiglia della California. La storia di Simeon Lee, un giovane medico impegnato a soccorrere lo zio malato, un parroco…
Un racconto poetico e sentitissimo, in cui Corona lascia libero il flusso dei ricordi e si concede ai suoi lettori con assoluta e generosa sincerità. I suoi luoghi, Erto, la diga, la montagna, così come le persone della sua vita, vengono filtrati dal tempo passato, e forse perduto, in un romanzo-monologo dove la profondità e il fascino del racconto sono impreziositi da una voce narrante sempre più risolta e convincente.
Dal giorno in cui, sessant’anni fa, piovve terra sulla terra, e terra nell’acqua, e terra su duemila anime morte, di cui quattrocentottantasette bambini, a Erto il tempo ha continuato a oscillare tra dolore e speranza di rinascita, ricordi tragici e difficili presenti, memoria di una povertà aspra e dura ma viva e vitale che si riflette nel benessere vuoto e triste dell’oggi. La voce narrante di questo romanzo lirico, struggente, ferocemente intimo, conduce il lettore in un continuo andare e venire su e giù nel tempo: il vecchio ricorda e racconta il suo mondo com’era, prima che la cieca avidità dell’uomo lo distruggesse, e insieme racconta la sua vita, l’infanzia e la prima adolescenza, la spensieratezza di tre fratelli che si alterna alla incomprensibile violenza della vita famigliare, e che si deve misurare con il tormento di una comunità stravolta dal dolore. E poi la maturità e la vecchiaia, il presente, che porta su di sé il peso di una vita intera: e il simbolo di tutto questo sono le altalene del paese, che il narratore ricorda nel loro oscillare gioioso tra le grida felici dei bambini, e che vede oggi ferme, vuote, arrugginite.
Dal direttore del museo archeologico nazionale di Napoli.
Il nostro Paese ci appare il più delle volte come l’erede per eccellenza della civiltà romana. Non c’è nulla di più vero, ma se ci mettessimo in viaggio percorrendo l’Italia da nord a sud scopriremmo che prima ancora che Italiani siamo stati Italici: in ogni regione la toponomastica, i monumenti, i reperti archeologici, le tradizioni etnografiche, persino le abitudini alimentari e culinarie raccontano la storia di popoli antichi che a partire dall’Età del ferro si sono frequentati, confrontati, scontrati. Celti, Veneti, Liguri, Etruschi, Sardi, Latini, Sanniti, Lucani, Piceni, Campani, Punici, Enotri, Siculi e molti altri hanno lasciato ovunque nella penisola tracce profonde, preziose per capire com’era l’Italia prima dell’avvento di Roma. Con la competenza dell’esperto e il passo avvincente del divulgatore, Paolo Giulierini ci accompagna in un viaggio affascinante, ci presenta gli Italici che siamo stati, ne approfondisce il rapporto con il territorio, le modalità insediative, la religione, la lingua e la scrittura, senza tralasciare il fondamentale incontro con i Romani e quello che ne è seguito. Corredato da splendide immagini, questo libro è al tempo stesso un saggio sulla meravigliosa complessità della storia del nostro Paese e una guida per innamorarsi, oltre che di tutte le sue bellezze, anche delle genti che lo hanno abitato in tempi remoti, e che ancora oggi ci parlano: non solo di loro ma anche di noi, da sempre popolo in cammino che a ogni tappa aggiunge un viandante alla carovana.
Oggi l’uomo sa di non essere al centro, ma solo ai margini di una galassia tra le molte che occupano uno spazio smisurato. L’etica del viandante avvia a pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora. «Questa avventura è il lavoro di una vita. Il filosofo fronteggia il vissuto e il governo dell’incertezza.»
L’Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell’età della tecnica. È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine. La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità: la tecnica funziona. L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza. Il mondo è ora regolato dal fare come pura produzione di risultati. L’unica etica possibile, scrive Umberto Galimberti, è quella del viandante. A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità: come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Oggi l’uomo sa di non essere al centro. L’etica del viandante si oppone all’etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia il nostro modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Così ci guida Galimberti: “L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora”.
Le donne dipinte, le donne reali, le donne come visioni in questo libro ci dicono che felice è il corpo capace di cambiare, di non rimanere immobile, di essere guardato senza perdere il proprio mistero, di amarsi prima di essere amato, di farsi luce dentro una tela o voce dentro un racconto.
Il 10 marzo 1914, a Londra, la suffragetta Mary Richardson impugna un coltello e lo affonda nella schiena di una donna di divina bellezza, nuda e intenta a guardarsi allo specchio: è la Venere Rokeby di Diego Velázquez, conservata alla National Gallery. Quel gesto di una donna contro un’altra donna, sia pure dipinta, mira a colpire il simbolo della femminilità vista dai maschi, della bellezza tenuta lontana dalla storia. Anche a questo serve il corpo: a rispecchiarsi, a ribellarsi. Roberta Scorranese mette al centro della sua riflessione il corpo femminile e le rappresentazioni che ne hanno fatto i massimi artisti di tutti i tempi (tra le altre, la regalità popolana ritratta nella Madonna del Parto di Piero della Francesca, l’antimichelangiolesca pienezza della Woman Eating di Duane Hanson o il dolore monumentale di Diego e io di Frida Kahlo) ma anche la fisicità di donne a noi più vicine, ciascuna con il suo segreto e la sua unicità. Insieme a quella del corpo, emerge con chiarezza in queste pagine la centralità dello sguardo, che fruga le superfici in cerca di una verità più profonda. Fondamentale è saper guardare, saperci accostare all’arte con la stessa sete con cui ci avviciniamo a un corpo amato: con turbamento ed emozione, disponibili a essere trasformati da ciò che vediamo e a lasciar scaturire da ogni incontro nuove storie. Perché a che cosa serve, questo nostro corpo, se non a essere la forma di una intima felicità? Le donne dipinte, le donne reali, le donne come visioni in questo libro ci dicono che felice è il corpo capace di cambiare, di non rimanere immobile, di essere guardato senza perdere il proprio mistero, di amarsi prima di essere amato, di farsi luce dentro una tela o voce dentro un racconto. Il volume contiene un inserto a colori con riprodotte le opere raccontate.
Un romanzo epico in cui smarrirsi e ritrovarsi, un viaggio nel tempo e fuori dal tempo, come quello di Yente, la vecchia che incontriamo nelle prime pagine e che aleggia – letteralmente – su tutta la storia, testimoniando ogni cosa dal luogo di presenza assente in cui si trova.
Jakub Frank è un giovane ebreo di origini oscure che da un villaggio polacco parte alla volta di un mondo che vuole cambiare. Il mondo sta già cambiando, in verità: siamo alla metà del Settecento e nuove idee sconcertanti e attraenti guadagnano terreno tra salotti e accademie. Jakub invece lavora con la gente, tra la gente: viaggia per l’Impero ottomano e quello asburgico, seduce con la parola e la persona, si offre, anima e corpo, come nuovo messia, sfolgorante di verità, eccentrico, irresistibile. I suoi seguaci farebbero – e alla fine faranno – qualunque cosa per lui: cambiano nome, casa, religione, identità. E lui da capo naturale diventa un tiranno sottile, suadente e imperioso, manipolatore. Creerà la sua corte e diventerà amico dell’Imperatrice, conoscerà la gloria, la prigionia, il lusso, la malattia, l’esaltazione, lo sconforto, senza mai negarsi niente, senza mai fare un passo indietro, trascinando con sé e con la sua famiglia il popolo di innocenti e reietti, fedeli e opportunisti che si è scelto e che spinto da ragioni diverse resta con lui fino alla fine. La parabola di un uomo eccezionale – Jakub Frank è veramente esistito – disegnata con minuzia contro uno scenario mobile, una commedia-tragedia corale in cui gli individui hanno tutti il loro momento alla ribalta. In quest’opera straordinaria, frutto di anni di studi, scavi e scoperte, Olga Tokarczuk rivisita i temi che da sempre le sono cari – i vagabondaggi, i confini e il loro senso, la storia grande e le storie piccole – con l’immaginazione, gli scarti sorprendenti e la capacità di indagine dell’animo umano che sono i suoi tratti di grande scrittrice. Un romanzo epico in cui smarrirsi e ritrovarsi, un viaggio nel tempo e fuori dal tempo, come quello di Yente, la vecchia che incontriamo nelle prime pagine e che aleggia – letteralmente – su tutta la storia, testimoniando ogni cosa dal luogo di presenza assente in cui si trova. Come lei, anche noi lettori siamo investiti del potere di vedere tutto, ascoltare tutti. E vorremmo che questo omaggio immenso al valore della parola e del racconto non avesse fine.
La vita dei testi attraverso i secoli raccontata da un grande maestro.
In che misura i testi antichi greci e latini che noi leggiamo in copie confezionate almeno un millennio dopo che quelle opere erano state scritte, le rispecchiano fedelmente e quali modifiche hanno subìto? È una questione storica, che ne comporta una più operativa: quando si tenta l’edizione di una di quelle opere, quali procedure ci consentono di muoverci in direzione degli originali? È di questo che si occupa la filologia classica, una disciplina coltivata già nell’antichità, fin dal tempo della Grande Biblioteca di Alessandria nel III e II secolo a.C., e poi affinatasi principalmente come studio della tradizione. In questo volume Luciano Canfora si propone di familiarizzare i lettori con i concetti fondamentali di questa disciplina (variante, archetipo, stemma e soprattutto errore), grazie anche al ricorso ad esempi concreti. Se nei manoscritti a noi giunti non ci fossero errori, i filologi sarebbero disoccupati. Per fortuna ci sono, e perciò gli studiosi da secoli si affannano al fine di ricostruire gli «originali»: e prendono spunto proprio dalle difettose copie che abbiamo tra mano. Questo libro tenta di raccontare successi e sconfitte, delusioni e delizie, di tale incessante lavoro.
L’Eneide è il più grande poema della latinità. Nata con l’audace ambizione di superare l’insuperabile Omero, ha esercitato un’influenza incalcolabile sulla letteratura occidentale; senza di essa, per esempio, non esisterebbe la Commedia di Dante quale noi la conosciamo. Nell’Eneide si sono viste la glorificazione dell’imperialismo romano e la sua critica; la lode di Augusto e la sottile contestazione del suo potere; la celebrazione dei trionfi di Roma e la meditazione malinconica sulla sconfitta e la perdita. In realtà, l’Eneide è tutte queste cose insieme, una “formazione di compromesso” tra poli opposti e inconciliabili, un’opera autoriflessiva che denuncia i meccanismi della deformazione ideologica nel momento stesso in cui li sfrutta e li mette in azione. Questa guida introduce il lettore alla grandiosa complessità del poema virgiliano alla luce dell’esegesi secolare e delle interpretazioni più recenti.
Elena, Andromaca, Circe, Nausicaa, Penelope: sono solo alcune delle donne che compaiono nei poemi omerici e che esternano i propri pensieri, sentimenti e opinioni in un mondo eroico declinato al maschile. Il poeta tratteggia figure potenti e molto diverse tra loro, dotate di un carattere unico e di un linguaggio connotato individualmente, ricalcato su modelli poetici riconducibili all’universo femminile, come il lamento funebre, la preghiera agli dei o il canto nuziale. Il volume individua in queste specificità espressive il filo conduttore che raccorda i vari personaggi, accanto al topos della tessitura che, in quanto metafora del canto poetico, diviene ora antitesi, ora cassa di risonanza per la parola femminile, e delinea il campo di azione delle donne omeriche nelle relazioni che esse intrattengono con il mondo esterno. In questo modo, pur nel contesto di una società fortemente limitante nei loro confronti, esse riescono a far sentire la propria voce condizionando le azioni e il destino degli eroi che agiscono sul mare e sul campo di battaglia.
Annarosa Mattei narra il cammino di una donna che ha segnato l’intero Grand Siècle, il Seicento, con l’audacia di scelte imprevedibili, anomale, enigmatiche. Della mitica Cristina racconta le lotte, l’insofferenza, gli errori, per svelare come abbia recitato la sua difficile parte in commedia di regina senza regno oltre ogni convenzione.
Una donna indipendente e anticonformista, una figura controversa e affascinante. Fin dal momento della sua nascita, Cristina di Svezia è destinata a due cose: a essere grande e a essere diversa. Figlia amatissima dell’impetuoso e colto re Gustavo II Adolfo della dinastia dei Vasa, viene educata come un principe, in aperta controtendenza rispetto ai radicati pregiudizi del tempo. Controversa e irriverente, scandalosa e geniale, Cristina scelse di disobbedire alle leggi di un mondo ancora troppo antico per accettare una personalità multiforme come la sua. Regina bambina a soli sei anni, assetata di libri e di cultura, trasformò Stoccolma nell’Atene del Nord. Trattò alla pari intellettuali e re ed ebbe tra i suoi maestri Cartesio, il filosofo più celebrato e discusso d’Europa. Rifiutò il matrimonio per essere libera ed elaborò il concetto di libertà per poter essere se stessa. Tutta la sua vita, sospesa fra governo, intrighi, passioni e meraviglie, fu la personificazione di un ossimoro. Il mondo però non la capì mai. Così Cristina preferì rinunciare alla corona e trasferirsi a Roma, città universale di linguaggi e culture diverse, dove fu seconda solo al papa. Annarosa Mattei narra il cammino di una donna che ha segnato l’intero Grand Siècle, il Seicento, con l’audacia di scelte imprevedibili, anomale, enigmatiche. Della mitica Cristina racconta le lotte, l’insofferenza, gli errori, per svelare come abbia recitato la sua difficile parte in commedia di regina senza regno oltre ogni convenzione.
E se la storia d’amore più romantica di sempre fosse tutta una menzogna? La prima volta che Romeo la vede, se ne innamora all’istante. Quell’angelo dalle guance seriche, le membra perfette, lo sguardo luminoso. Le dita che si muovono leggere sulle corde del liuto. Intorno a loro la festa si muove, in un turbinio di vesti variopinte, musica e vino, ma Romeo Montecchi ha occhi solo per lei. Per quel sole davanti a cui impallidisce, invidiosa, la luna. Le loro famiglie sono in guerra, una faida antica le cui origini a Verona nessuno ricorda più. Qualsiasi sentimento fra loro non può che essere scandalo, oltraggio, motivo di scontro. Scontro che appare inevitabile, visto che lei accoglie le attenzioni di Romeo come un bocciolo di rosa accoglie la primavera. Così, quando lui si arrampica fino al suo balcone per cospargerlo di fiori, lei gli giura amore eterno. E quando lui le promette un matrimonio segreto e la fuga, lei cede. Lei, che si chiama Rosalina Capuleti e che, destinata al convento, deve conoscere l’amore, combattere la sorte decisa da altri. Nessuno le ha mai rivolto parole incantevoli come quelle di Romeo, anche se a volte sembra un attore che recita sul palcoscenico. Ma quando lui le chiede di mentire, rubare, tradire, nel cuore della passione si insinua il dubbio: e se Romeo Montecchi non fosse chi dice di essere? Qualcuno ha cercato di aprirle gli occhi ma lei, prima, era incapace di vedere. Intanto Romeo, dimenticate in un istante le promesse fatte, ha già posato lo sguardo su un’altra Capuleti. Per Rosalina, delusa e piena di domande, è il momento della rabbia, della vendetta anche per le donne che l’hanno preceduta. Non ce ne saranno altre. Forse non è troppo tardi per salvare Giulietta…
Un commovente romanzo di violenza e redenzione, che racconta le vicende intrecciate di due bambini uniti dallo sradicamento. Due personaggi indimenticabili, entrambi alla ricerca di una famiglia e di una casa.
Vienna, 1938. Samuel Adler è un bambino ebreo di sei anni il cui padre scompare durante la Notte dei cristalli, quando la sua famiglia perde tutto. La madre, per salvarlo, lo mette su un treno che lo porterà dall’Austria all’Inghilterra. Per Samuel inizia così una nuova fase della sua lunga vita, sempre accompagnato dal suo fedele violino e dal peso dell’incertezza e della solitudine. Arizona, 2019. Anita Díaz, sette anni, sale su un altro treno con sua madre per sfuggire a un pericolo imminente nel Salvador e cercare rifugio negli Stati Uniti. Ma il loro arrivo coincide con la nuova politica di separazione famigliare, e Anita si ritrova sola e spaventata in un centro di accoglienza a Nogales. Lontana dai suoi affetti e senza certezze, si rifugia su Azabahar, una magica stella che esiste solo nella sua immaginazione. Nel frattempo Selena Durán, una giovane assistente sociale, chiede aiuto a un avvocato di successo nella speranza di rintracciare la madre di Anita. Intrecciando passato e presente, Il vento conosce il mio nome racconta la storia di due personaggi indimenticabili, entrambi alla ricerca di una famiglia. È una testimonianza delle scelte estreme a cui i genitori sono costretti, una lettera d’amore ai bambini che sopravvivono ai traumi più devastanti senza mai smettere di sognare. Dall’autrice di “Violeta”, un nuovo romanzo in cui passato e presente si intrecciano: la fuga dalla tragedia del nazismo in Austria e quella dalla violenza nel Salvador, tra amore, sradicamento e speranza.
Immutabile, saldo come una roccia, rimane l’inarrivabile Poirot, con la sua ironia unica e le sue inimitabili celluline grigie.
A una festa di Halloween, una petulante tredicenne, Joyce, si vanta di aver assistito, tempo prima, a un omicidio. Ma nessuno le crede. Nel giro di poche ore, però, in casa viene ritrovato il suo cadavere. Chiamato a indagare, tocca al celebre detective Hercule Poirot scoprire – in quella notte di occulto e inganni – la malvagia presenza responsabile del delitto. Tra i migliori e più amati romanzi di Agatha Christie, Hallowe’en Party , noto anche col titolo La strage degli innocenti , «è un libro che lascia sconvolti: se la scelta della vittima è fredda e spietata, le complicazioni che vengono alla luce con il procedere delle indagini di Poirot sono raggelanti», sostiene Michael Green, che da queste pagine ha tratto la sceneggiatura di Assassinio a Venezia . La narrazione riflette da un lato l’eco inquietante di antiche leggende e atmosfere gotiche, dall’altro i profondi mutamenti sociali e culturali dei turbolenti anni Sessanta.
Carla Maria Russo, con la sua immensa capacità di far rivivere personaggi delle epoche più disparate – nella grandezza come nella brutalità, nell’eccezionalità come nella miseria – ci regala un affresco impareggiabile del Cinquecento e di struggenti figure femminili.
Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e nipote della grande Caterina Sforza, contrariamente al comune sentire, rivela una netta e spiccata predilezione per le figlie femmine. Non ha ancora diciotto anni, quando diventa padre di una bambina, Bia, che lui adora e cresce come se non fosse nata fuori dal matrimonio. Nella ricerca di una sposa, l’originale duca pretende che vengano tenute in considerazione anche le ragioni del cuore, non solo quelle della politica, e riesce così a sposare la bellissima Eleonora da Toledo. Eppure, mentre fortuna e amore sembrano colmare di gioie e benedizioni la famiglia di Cosimo, un destino tragico e doloroso è in agguato. Inattesa e brutale, giunge la morte di Bia, che procura al duca un dolore così devastante da mettere a rischio la sua vita. Riesce a ritrovare una ragione per andare avanti solo perché Eleonora annuncia di essere di nuovo incinta e il duca si persuade che sarà una bambina, una bellissima bambina. Nascerà infatti una femmina, Isabella, che il duca amerà di un amore così profondo ed esclusivo da condurlo a commettere ingiustizie e alimentare gelosie e rancori. Un fato avverso colpirà una dopo l’altra tutte le donne di casa Medici, trascinando verso una fine ancora più drammatica proprio quelle che il duca ha amato di più, vittime delle vendette che lui stesso ha contribuito a suscitare.
Una fantasmagorica avventura nelle foreste dello Yucatán, per poi arrivare nella sfavillante Città del Messico e, più oltre ancora, fin negli abissi dell’Oltretomba maya.
L’età del jazz è all’apice del suo splendore, ma la diciottenne Casiopea Tun non ha tempo da dedicare allo swing; è troppo impegnata a spazzare i pavimenti nella dimora del ricchissimo nonno nel Sud del Messico. Desidera da sempre una vita diversa, lontana da quel polveroso villaggio: una vita che sia davvero solo sua. Un sogno, però, che pare irrealizzabile fino al giorno in cui, aprendo per caso un baule di legno custodito nella camera del nonno, libera inavvertitamente lo spirito del Signore delle Ombre – il dio maya della morte –, che le chiede di aiutarlo a riconquistare il trono usurpato dal fratello. Se Casiopea fallirà nell’impresa, andrà incontro alla morte. Se invece riuscirà, il suo sogno potrà finalmente avverarsi. Assieme a questo dio incredibilmente bello, e armata unicamente della propria intelligenza, la ragazza intraprende una fantasmagorica avventura che la condurrà nelle foreste dello Yucatán, nella sfavillante Città del Messico e, più oltre ancora, fin negli abissi dell’Oltretomba maya.
Una raccolta di racconti brevi che, con toni ora più gotici e tetri, ora più caustici e ironici, analizzano da diversi punti di vista, proponendo anche soluzioni concrete, il tema del femminile.
Secondo il marito, un medico dall’indole pratica e sbrigativa, lei non ha niente che non va, «a parte un temporaneo crollo nervoso, una lieve tendenza all’isteria» conseguente alla nascita del loro bambino. E così le prescrive aria fresca, cibo sano, riposo soprattutto, e – mi raccomando – nessuna attività intellettuale. Hanno preso in affitto una vecchia casa isolata, e lei trascorre le sue giornate nella camera all’ultimo piano, la vecchia nursery. La stanza dalla carta da parati gialla. Osservandone ossessivamente i decori, però, la donna cade in una spirale di incubi, visioni, allucinazioni: un gorgo di disperazione e solitudine che la avvolge sempre più stretta. Pubblicato nel 1892, La carta da parati gialla è un racconto di straordinaria intensità, qui accompagnato da altri testi scelti all’interno della multiforme produzione di Charlotte Perkins Gilman. Si tratta di racconti brevi che, con toni ora più gotici e tetri, ora più caustici e ironici, analizzano da diversi punti di vista, proponendo anche soluzioni concrete, il tema del femminile: la maternità e il ruolo della donna nella società, la suddivisione dei carichi famigliari all’interno della coppia, la necessaria indipendenza di pensiero ed economica della donna. Il tutto con accenti incredibilmente moderni.
«Mentre bevo un caffè caldo, nero, / rovesci di ghiaccio sferzano la finestra, / un gattino di sei mesi sonnecchia mordendo / la mano di chi scrive queste righe, / e una cagna di nove anni dorme, / acciambellata ai suoi piedi, / grata per la vita.» Protagonista di questa raccolta in versi di Jón Kalman Stefánsson è la quotidianità, vissuta in una stanza ai confini del mondo, a Reykjavík, con le incombenze da gestire, il chiasso dei vicini, i fiordi in lontananza e le montagne che non possono fare altro che brillare di neve. Ma anche in questo angolo appartato e all’apparenza protetto irrompe il dolore, sotto forma delle grandi tragedie del nostro tempo: i ghiacciai che si sciolgono, i mari punteggiati di plastica, i naufragi al largo della Sicilia, un attentato terroristico, il campo profughi di Lesbo. In un mondo che cambia e spaventa, pronto a inghiottire anche il microcosmo islandese, le poesie sono «notizie dalla vita» che la morte non può sconfiggere. E se i piedi del poeta sono ben piantati nella realtà, il suo sguardo la trascende, è rivolto all’amore, all’infinito e all’eterno. È in quella fessura tra la ragione e il sogno che la poesia sa guardare, anche quando ha gli occhi ormai ciechi di Borges. È lì che basta un disco di Nina Simone perché da un comune appartamento di città si apra una finestra sull’assoluto. Dopo decenni da romanziere, Stefánsson ritorna al primo amore, la scrittura in versi, con piccoli distillati di humour ed epifanie sull’arte e l’esistenza in cui echeggiano i suoi miti, dai Beatles a Tom Waits fino a Wisława Szymborska.
Questo secondo volume dei cinque che compongono i Diari di Virginia Woolf – e che copre il tempo dall’inizio del 1920 alla fine del 1924 – dà conto di molti eventi-chiave nella vita della scrittrice: con il successo controverso della Stanza di Jacob e il lavoro su The Hours, che diventerà Mrs Dalloway, Woolf trova la sua voce; la casa editrice fondata con il marito Leonard, la Hogarth Press, passa da attività amatoriale a vera impresa, con le luci e le ombre che questo comporta, e la presenza assidua di T.S. Eliot tra i collaboratori; Virginia affronta la morte dell’amica-rivale Katherine Mansfield e conosce Vita Sackville-West, “quella cara aristocratica ottusa & passionale, quella specie di granatiere”; infine, dopo un periodo a Richmond, sceglie di far ritorno a Londra, “diaspro di giocondità”, proprio nel cuore di Bloomsbury: la sua vita affettiva e quotidiana torna perciò a coincidere con quella della città amatissima. E mentre succede tutto questo, Virginia Woolf scrive il suo Diario, che è il cangiante romanzo della vita di tutti i giorni, con le occasioni mondane e i momenti di misantropia, gli assalti dei dubbi e gli accessi di presunzione, l’inclinazione al gioco come alla serietà, le cattiverie e gli slanci di generosità.
1943. Nella Francia occupata dai tedeschi, un giovane ufficiale, Robert B., rientra a Parigi dopo più di tre anni di prigionia. Nell’attesa di un treno che, dalla Gare de Lyon, lo riporti finalmente a casa, ha un pugno di ore da spendere nella capitale e un impegno da assolvere: trovare Marie-Anne, la ragazza che il suo compagno dell’Oflag in cui erano rinchiusi, Bruno Berthier, ha conosciuto durante una breve licenza dal fronte e di cui è rimasto innamorato. Ha inizio così una ricerca attraverso una città che non ha più nulla della Parigi da Robert conosciuta prima della guerra: strade vuote di automobili, mercato nero, code, vetrine spoglie, un’atmosfera di paura, rabbia, disordine morale, troppo volti sconosciuti, nessun volto che riesca a risplendere nel ricordo. Via via che le ore scorrono, la ricerca assume i contorni di una vera e propria inchiesta, perché anche la polizia è intanto sulle tracce di Marie-Ange, resasi irreperibile: il corpo del suo ex marito è stato infatti ritrovato alla frontiera franco-belga, in un camion contenente merci di contrabbando. E perché? C’erano ancora rapporti fra loro? Che ne è stato del figlio che avevano messo al mondo? In “Sei ore da perdere”, Robert Brasillach costruisce un perfetto noir alla Simenon dove una struttura a incastro illumina di volta in volta gli indizi in vista della loro finale collocazione, ma traccia altresì un crudele quanto illuminante ritratto di una capitale in tempo di guerra dove il senso del «tragico sociale» fa strame di ogni illusione sul passato e sull’innocenza dei suoi protagonisti. Scritto di getto in pochi mesi, pubblicato come feuilleton per il settimanale «La Révolution nationale» dal marzo al giugno del 1944, questo poliziesco d’atmosfera è l’ultima prova narrativa di Brasillach e un’ulteriore conferma, qualora ancora ce ne fosse bisogno, del suo grande talento di narratore.
In una terra frantumata dall’odio, quattro ragazzi combattono per realizzare i loro sogni.
Irlanda del Nord. Anni Sessanta. Saoirse è soltanto una bambina, ma ha già imparato come si sopravvive in un Paese in guerra. Figlia di una città divisa da un fiume che separa gli irlandesi dagli inglesi, ha trascorso l’infanzia lanciando sassi contro le camionette dei soldati, fra riot e bottiglie incendiarie. Per le strade polverose del Bogside non è mai stata sola, insieme a lei ci sono i suoi migliori amici: Orla, Cillian e Aidan. Presto per i quattro è il momento di lasciarsi alle spalle le sfide con le biglie: la morte, cruda e fin troppo reale, irrompe sulla scena e li costringe a diventare grandi prima del tempo. Crescere nella periferia di Derry somiglia pericolosamente a una battaglia, e ognuno è chiamato a combattere la propria, seppellendo ogni fragilità per non scoprire il fianco al nemico. In una terra che sanguina, persino l’amore è una debolezza, e l’idea di un futuro migliore ha l’inconsistenza di un sogno. Per salvarsi dalle siringhe e dalle bombe che dilaniano il loro mondo, Aidan e Saoirse, Cillian e Orla ancora una volta dovranno attingere alla forza di un’amicizia indissolubile, tenace come il sogno di un’Irlanda libera, bruciante come il fuoco di una molotov.
Il capitolo finale di Engaged, l’originale riscrittura de I Promessi Sposi di Beppe Roncari, che con uno stile innovativo racconta la storia che tutti quanti abbiamo studiato a scuola, intessendola con elementi magici e fantastici che la rendono nuova e inaspettata.
Le strade di Renzo e Lucia si sono divise: lui, dopo aver trovato rifugio a Bergamo, sta per approdare a Venezia in veste di prigioniero; lei, invece, è nel monastero della Signora di Monza, una donna dal fascino oscuro e piena di segreti. I due ragazzi sono in realtà al centro delle trame e dei giochi dell’angelo Mumiah e del demone Belial, che da tempo si sfidano per impadronirsi del Libro segreto di Giordano Bruno, depositario di un potere sconfinato e pericoloso, soprattutto se dovesse finire nelle mani sbagliate o di loschi personaggi che è meglio che restino «Innominati»… Tra peripezie, inganni e colpi di scena, riuscirà il Bene ad avere la meglio sul Male, permettendo a Renzo e Lucia di realizzare il loro sogno d’amore?
Bambi ripercorre i primi anni di vita di un capriolo e le prove che dovrà affrontare.
Con le illustrazioni di Simone Massi, la prefazione di Luca Raffaelli e l’introduzione di Massimiliano De Villa.
La celebre storia del capriolo che perde la mamma è entrata nell’immaginario culturale dell’Occidente come favola per bambini grazie al successo della trasposizione cinematografica di Walt Disney nel 1942. Ma a ben leggere l’opera dello scrittore ebraico-ungherese Felix Salten, in Bambi non c’è mai stata l’intenzione di rivolgersi a giovanissimi: come scrive nella sua introduzione Massimiliano De Villa “l’infanzia è uno stadio da superare, cui non si desidera fare ritorno, una fase da attraversare sulla via della maturità. Proprio per questo – come recita il sottotitolo – si tratta della Storia di una vita”. Bambi è un romanzo di formazione a tratti triste, a tratti spietato, un viaggio attraverso la crudeltà della natura, dove la violenza non viene esercitata solo dai cacciatori, ma anche dalle creature del bosco verso i propri simili. La lotta per la sopravvivenza è la legge che guida tutti gli abitanti del bosco. Ma anche tutti noi. Per recuperare il senso più originale, poetico e profondo di Bambi, questa edizione è stata meravigliosamente illustrata dall’animatore, regista e artista Simone Massi. Il suo tratto denso e drammatico ci accompagna dentro il bosco. Come ci racconta il giornalista Luca Raffaelli nella prefazione, tutte le sue tavole “nascondono un invito a entrare con lo sguardo, a non fermarci sulla superficie. C’è sempre una zoomata che dobbiamo fare noi, per arrivare in fondo, per capire di più”. Per scavare, insieme a Bambi, tra le domande e i dubbi che, da sempre, agitano il nostro essere vivi. Età di lettura: da 10 anni.
Dopo il successo internazionale de Il treno dei bambini e di Oliva Denaro, Grande meraviglia completa un’ideale trilogia del Novecento. In questo magnifico romanzo di formazione, il legame di una ragazzina con l’uomo che decide di liberarla rivela il bisogno tutto umano di essere riconosciuti dall’altro, per sentire di esistere. Elba ha il nome di un fiume del Nord: è stata sua madre a sceglierlo. Prima vivevano insieme, in un posto che lei chiama il mezzomondo e che in realtà è un manicomio. Poi la madre è scomparsa e a lei non è rimasto che crescere, compilando il suo Diario dei malanni di mente, e raccontando alle nuove arrivate in reparto dei medici Colavolpe e Lampadina, dell’infermiera Gillette e di Nana la cana. Del suo universo, insomma, il solo che conosce. Almeno finché un giovane psichiatra, Fausto Meraviglia, non si ficca in testa di tirarla fuori dal manicomio, anzi di eliminarli proprio, i manicomi; del resto, è quel che prevede la legge Basaglia, approvata pochi anni prima. Il dottor Meraviglia porta Elba ad abitare in casa sua, come una figlia: l’unica che ha scelto, e grazie alla quale lui, che mai è stato un buon padre, impara il peso e la forza della paternità. Con la sua scrittura intensa, originale, piena di musica, Viola Ardone racconta che l’amore degli altri non dipende mai solo da noi. È questo il suo mistero, ma anche il suo prodigio.
Gli scienziati di cui questo libro racconta le vicende straordinarie si chiamavano ancora filosofi naturali. Non avevano cattedre né prebende, e poteva accadere che per guadagnarsi da vivere si imbarcassero sull’Endeavour di un certo Cook, col compito di raccogliere e catalogare esemplari di fauna e flora esotiche, sempre che tempeste e popolazioni non proprio bendisposte li lasciassero prendere terra. O che nel tempo libero, insieme a una sorella molto devota, costruissero un telescopio sul tetto di casa per provare a calcolare il numero esatto delle stelle esistenti. E poteva essere che nel buio delle notti d’inverno scoprissero pianeti dove nessuno sospettava esistessero, lasciando ad altri il compito di chiamarli Urano, Titania o Encelado. Joseph Banks e William Herschel sono solo due fra gli eroi – di volta in volta colossali e minuscoli, spesso irresistibilmente comici – cui Richard Holmes ha dedicato questo libro. Che è un esperimento felice e avventuroso come quelli che racconta, e istiga nel lettore il migliore dei sentimenti che una storia possa trasmettere: l’invidia per i suoi personaggi.
Con la prefazione di Cristina Nesi.
Romanzo immerso nel fiume carsico del fantastico del Novecento di uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, Un infinito numero racconta la storia del greco Timodemo — venduto come schiavo, istruito come grammatico e poi acquistato da Virgilio come suo segretario —, e il suo viaggio onirico e crudo nella terra e nei misteri degli Etruschi, il popolo che non ha lasciato traccia scritta di sé. Sarà lui ad accompagnare il poeta e Mecenate in un percorso misterioso che li condurrà alla scoperta dei segreti nascosti nel mito fondativo di Roma, che l’imperatore Ottaviano vuole celebrare commissionando a Virgilio mun poema per immortalarlo nella gloria dei secoli. Un viaggio che dura fino agli ultimi mesi di vita di Virgilio, la cui opera, incompiuta, verrà terminata da altri e pubblicata contro la sua volontà, tramandando ai posteri la leggenda di Enea e di Romolo forgiata dalla ragion di Stato.
Un volume che traccia una mappa inedita della breve parabola di D’Arzo, spalancandoci le porte della casa che ideò per sé e per i lettori.
Con un diario inedito dell’autore.
A cura di Alberto Sebastiani e con la postfazione di Walter Siti.
Casa d’altri, il racconto lungo perfetto secondo Eugenio Montale, non arriva dal nulla. Il cammino letterario che porta il suo autore, Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, a scrivere il suo racconto più amato, ha una traiettoria precisa, incredibilmente densa per i pochi anni in cui si svolge. In questo volume se ne ripercorrono le tappe fondamentali: dalla fascinazione per il fantastico di All’insegna del Buon Corsiero – storia settecentesca di un misterioso funambolo – passando per L’osteria, racconto straniante di vite che si incrociano, per arrivare all’asciuttezza esistenziale degli ultimi lavori culminanti in Casa d’altri. Senza dimenticare i saggi, in cui gli influssi molto poco italiani – da Henry James a Ernest Hemingway – si configurano come pudore e reticenza dello scrivere. Il viaggio è completato poi dalle pagine di un diario del ’43 finora ignoto, che racconta la paura di essere richiamato alle armi e il desiderio di ricominciare a scrivere. Il risultato è un volume che traccia una mappa inedita della breve parabola di D’Arzo, spalancandoci le porte della casa che ideò per sé e per i lettori.
Se abbiamo perso la gioia della nostra odissea, rileggere l’Odissea è il modo migliore per “fare ritorno”. Allora resistere non è rimanere fermi, ma ri-esistere: nascere. Questa è l’arte di essere mortali.
Odissea: è il titolo del poema epico forse più noto e amato della nostra civiltà ed è anche il termine a cui si ricorre per definire un’esperienza travagliata e, in taluni casi, la vita tout court. Perché soltanto al titolo di quest’opera concediamo di essere sinonimo di vita? Ulisse è un eroe nuovo: avrebbe la possibilità di diventare immortale rimanendo con la bellissima Calipso, ma vuole tornare a Itaca da Penelope e Telemaco, e compiere il proprio destino mortale, paradossale destino di gioia. Proprio perdendo tutto, persino la propria identità, da re a mendicante, rinasce grazie a chi lo sa riconoscere e amare. Se Achille è l’eroe che sovrasta il mondo, Ulisse ne è invece sovrastato. Il suo multiforme ingegno scaturisce dalla necessità di difendersi dai colpi della storia. La sua è una vicenda di resistenza, che culmina nei dieci anni necessari per tornare a casa, dopo i dieci trascorsi a combattere una guerra non sua: a quanti è accaduto qualcosa di simile? E quanto abbiamo sofferto, quanti compagni abbiamo perduto, quante volte abbiamo fatto naufragio, prima di capire che l’unica cura per l’invincibile nostalgia di futuro che ci affliggeva era tornare nella nostra Itaca, non quella del passato ma quella ancora da fare rimanendo fedeli al nostro destino? Alessandro D’Avenia ripercorre i ventiquattro canti del poema come un’arte di vivere, e lo fa risplendere di tutta la sua luce. Ci accompagna attraverso l’opera come studioso di Lettere classiche che l’ha eletta a suo principale ambito d’interesse, come insegnante che da anni ne promuove la lettura integrale ad alta voce, come intellettuale abilissimo nell’interpretare lo spirito del tempo. E nel raccontarci le peripezie di Ulisse vi ritrova la propria esperienza personale e il percorso di ogni uomo verso il proprio originale compimento esistenziale.
Enea, fuggito da Troia in fiamme, naufraga sulla costa africana, davanti alla città di Cartagine, con suo figlio e un manipolo di uomini. Una profezia lo vuole fondatore di un impero, ma il suo destino è nelle mani della regina Elissa e degli dèi, che possono scagliargli contro un’orda di nemici o una freccia per farlo cadere innamorato. Secoli dopo, il poeta Virgilio riceve da Augusto l’incarico di scrivere un poema che narri la gloriosa storia di Roma, ma teme di non essere all’altezza del compito ed è scontento di sé. L’imperatore riesce a impedire che distrugga i versi composti, consegnando così alla Storia, e a noi, il suo capolavoro. Un romanzo caldo, vivido, che come tutta l’opera di Vallejo arde di amore per il mondo classico e che rivisita le radici della nostra civiltà intrecciando la trama dell’Eneide con la vicenda creativa del suo autore: due linee temporali che consentono di rivivere un’appassionata leggenda d’amore e di guerra e l’eroismo sommesso di un artista impegnato nella lotta quotidiana contro le avversità.
“Si tratti di interventi pubblici, di articoli o di prefazioni e saggi opportunamente e brillantemente organizzati, i capitoli di questo libro sono sempre di racconto e di memoria. Erede di Twain, di Swift, di Dickens, Kurt Vonnegut finisce sempre per conversare con il suo lettore mescolando sapientemente le storie e i commenti, divagando con ordine nello svolgimento dei suoi temi abituali: l’assurdo della civiltà in cui viviamo, la stupidità del potere, il dovere del rispetto e dell’amore per il nostro prossimo. Pochi valori sicuri, vissuti e dispiegati, aiutano a rivelare la bruttezza del mondo, delle leggi sociali che ci costringono e ci opprimono, ma anche la sua bellezza, e l’amicizia, l’amore, gli affetti famigliari, la lotta per la giustizia, lo humor, la speranza. Nonostante tutto. Una delle menti più libere del nostro tempo ci insegna a guardare attorno a noi e oltre di noi con vera curiosità e generosità.” Goffredo Fofi
Nel corso del Settecento, mentre in tutta Europa la borghesia andava al potere instaurando le prime forme di democrazia, in Russia avveniva il trapasso da un sistema feudale a un sistema autocratico. In questa grande opera di sintesi storica sull’ancient régime russo, Marc Raeff esamina le ragioni di questa ‘anomalia’ e del divario politico, sociale ed economico tra Europa e Russia, raccontando i meccanismi che portarono all’accentramento del potere nelle mani dello zar, all’esautoramento di una nobiltà ridotta a sfavillante coreografia della corte e alla sopravvivenza di strutture schiavistiche che dureranno fino alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre.
Un affresco della multiforme condizione femminile nel Medioevo che testimonia la capacità di tante donne di reinventare il loro destino. Sei storie esemplari di donne del Medioevo e del loro rapporto con la maternità. C’è l’esperienza di Dhuoda (vissuta nel IX secolo), il cui figlio Guglielmo fu consegnato come ostaggio a Carlo il Calvo; c’è – due secoli dopo – la vicenda di Matilde di Canossa, donna potentissima ma delusa nelle sue aspettative di maternità. C’è l’esempio di Caterina da Siena, che pur non avendo figli agisce e scrive da ‘grande madre’ italiana. C’è Christine de Pizan, impegnata nell’ultimo scorcio di Medioevo a destreggiarsi tra i figli e la carriera. Ancora, c’è Margherita Datini, che cresce come fosse sua figlia una bambina che il marito ha avuto da una schiava; c’è infine Alessandra Macinghi Strozzi, vedova di un esule, che fa da madre e padre ai suoi 5 figli. Pagina dopo pagina, si rovescia ciò che crediamo di sapere sulle donne del passato: scopriamo figure di madri oltre la retorica che le relega a un ruolo angusto, incontriamo autentiche madri anche oltre l’effettiva esperienza biologica, osserviamo donne in azione oltre la sfera domestica, protagoniste oltre i limiti imposti dal tempo in cui vissero al loro genere. Insomma, madri e donne che vanno ben al di là delle nostre (spesso ristrette) concezioni del Medioevo.
“Deve esserci un errore…” pensa il reverendo Corder quando apre la porta di casa alla nuova governante. Quarant’anni, l’aspetto trasandato, il naso bitorzoluto e un vero talento per i commenti inappropriati, la signorina Hannah Mole non è arrivata per errore. Dopo anni passati a fare da badante ad anziane capricciose, è tornata nella città della sua giovinezza. Ed è lì per restare. Il reverendo è preoccupato: l’ha assunta per fare da istitutrice alle figlie, ma, con il suo bizzarro e brillante senso dell’umorismo, la signorina Mole non si limita ad aiutare le ragazze a fare i compiti. Aiuta la piccola e dolce Ruth a uscire dal suo guscio e a elaborare la morte della madre. Ma soprattutto vince la diffidenza della rigida Ethel, curando il suo cuore ferito. Non segue un metodo educativo particolare. La sua arma è la capacità di trovare modi sempre diversi di vedere il mondo. Ma nel passato di Hannah c’è un segreto che potrebbe mettere a repentaglio ciò che ha faticosamente conquistato. Quando riemerge, lei sa che la sua intelligenza e il suo spirito non basteranno per liberarsene. E allora, in un giorno di pioggia, decide di andarsene. Forse, però, sottovaluta la forza che ha infuso nelle persone intorno a lei. Ora che hanno imparato a conoscerla veramente, non sono disposte a rinunciare alla sua presenza.
Il quinto straordinario capitolo della saga di Kingsbridge.
Eroine ed eroi carismatici combattono per un futuro libero dall’oppressione, personaggi cattivi e perversi cercano di mantenere ad ogni costo i loro privilegi in un complesso e affascinante intreccio ricco di dettagli storici accuratamente documentati. Le armi della luce si svolge tra il 1792 e il 1824, un’epoca di grandissimi cambiamenti in cui il progresso si scontra con le tradizioni del vecchio mondo rurale e il governo dispotico è determinato a fare dell’Inghilterra un potente impero commerciale. A Kingsbridge l’industrializzazione si fa rapidamente strada riducendo alla miseria la maggior parte della popolazione dedita alla manifattura tessile, la principale fonte di reddito della città. La vita di un gruppo di famiglie collegate tra loro viene stravolta dalla nuova era delle macchine, mentre imperversa la guerra con la vicina Francia di Napoleone Bonaparte che giunge alla sua epocale conclusione con la battaglia di Waterloo. Scoppiano le rivolte del pane, gli scioperi e la ribellione contro l’arruolamento forzato nell’esercito. Una coraggiosa filatrice, un ragazzo geniale, una giovane idealista che fonda una scuola per bambini disagiati, un commerciante di tessuti travolto dai debiti del padre, una moglie infedele, un operaio ribelle, un artigiano intraprendente, un vescovo inetto, un ricco imprenditore senza scrupoli sono solo alcuni dei personaggi che animano questa storia indimenticabile.
Ottobre 1972, struttura psichiatrica Stella Maris. Tra le mura di una stanza un uomo e una donna si scambiano parole di matematica e desiderio, di musica e visioni. Lei si chiama Alicia Western ed è lì per cercare di sfuggire ai suoi demoni. Lui è lo psichiatra che l’ha in cura ed è lì per tentare di salvarle la vita. Falliranno entrambi, ma le parole che si scambiano tra quelle mura resteranno dopo di loro. Nella seconda metà della dilogia cominciata con Il passeggero, Cormac McCarthy chiude il cerchio delle vicende dei fratelli Western – e della sua intera opera – con un romanzo di diamantina intelligenza e strabiliante vis drammatica: l’ultima degna parola di un autore di genio. Quando bussa alla porta della clinica psichiatrica Stella Maris, con quarantamila dollari in contanti in una busta e poca carne addosso, Alicia Western ha vent’anni e altri due ricoveri alle spalle. Il compito che attende il dottor Cohen, che la prende in cura, è di quelli che possono far vacillare la fiducia di un medico nella propria professione. Con diagnosi plurime di sociopatia deviante, anoressia, probabile autismo, tendenze suicide e schizofrenia paranoide, Alicia è accompagnata fin dalla pubertà da uno stuolo di personaggi allucinatori capeggiati dall’individuo pinnuto e astruso che lei chiama Talidomide Kid. Ma accanto alle sue molte patologie psichiatriche, la giovane Western è anche una matematica di genio con un QI non testabile, nonché una virtuosa del violino troppo assorbita dalla teoria dei topoi per raggiungere nella musica un’eccellenza a lei accettabile. Ardua missione, per un terapeuta, cercare di strappare i brandelli di un’anima lacerata alle spire di una mente tanto vorace: nella danza di parole che i due ingaggiano, a ogni passo del medico corrisponde un nuovo imprendibile exploit della paziente, intriso di beckettiana ironia e puntellato di autorevoli teorie. Grothendieck e Gödel, Maxwell e Feynman. Kant, Schopenhauer e Wittgenstein. Bach. Il sapere moderno distillato in un lasciapassare per il nichilismo. Nel parterre di riferimenti di Alicia un solo nome compare con sospetta parsimonia, ed è quello di suo fratello Bobby, lasciato in coma in Italia dopo un incidente automobilistico, e dato per morto. Di Bobby Alicia non vuole parlare. Ed è proprio in quell’eloquente silenzio che lo psichiatra incunea il suo grimaldello. Perché ora sa che solo di Bobby, solo a Bobby, Alicia vorrebbe parlare. Seduta dopo seduta, il tempo a disposizione si fa sempre più breve. E nel ticchettio ora sommesso ora impetuoso di quell’orologio che lei sa leggere anche al contrario, Alicia si prepara a dimostrare l’estrema verità che ha appreso su questa esistenza: che «il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere».
Wax e Wayne, il suo eccentrico aiutante, insieme all’intraprendente Marasi, si ritroveranno a sventare un complotto che potrebbe rendere vane tutte le conquiste fin qui compiute.
Costretto ad abbandonare la frontiera per tornare nella città in cui è cresciuto e assumere la guida della sua nobile casata, Waxillium Ladrian non pensava certo che le abilità acquisite nei vent’anni trascorsi nelle Lande gli sarebbero tornate nuovamente utili. Ma ha presto imparato che anche nella metropoli essere un duomante – in grado di usare sia i poteri allomantici sia quelli feruchemici – non basta. È ormai passato un anno dal suo ritorno, e su Scadrial le cose stanno cambiando: tecnologia e magia si mescolano, l’economia cresce, la democrazia lotta contro la corruzione e la religione sta assumendo un ruolo sempre più importante, con diverse fedi che si contendono i convertiti. Il progresso però nasconde anche un rovescio della medaglia: la vivace ma fragile società viene scossa da terrorismo e crimini che fomentano conflitti sindacali e religiosi. In tutto ciò Salassa, una dei kandra al servizio del dio Armonia, decide di ribellarsi e inizia a seminare morte.
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