Dopo il caldo torrido di questa estate e le vacanze in cui ci siamo riposati siamo pront* per riprendere le nostre attività! Anche il mondo dell’editoria si è rimesso in moto, infatti questo settembre è ricco di novità che faranno tremare i vostri portafogli! Tanti romanzi storici (e qualche disgressione!) ma anche interessantissimi saggi a tema storico e archeologico! Io ho mi sono già segnata alcuni titoli che ritengo impedibili!
INIZIAMO!
VI secolo d.C. Sotto il regno della regina degli Ostrogoti Amalasunta, tra le aspre montagne e le foreste selvagge dei Monti Simbruini, Benedetto da Norcia guida i suoi monaci con fede incrollabile e ferrea disciplina. L’ordine da lui fondato segue un codice scandito da un rigido impegno di lavoro e preghiere. Ma alcuni efferati omicidi gettano l’intera comunità nel terrore. La natura cruenta dei delitti porta a pensare che il colpevole sia il leggendario Lupo scarlatto, il cui nome viene sussurrato con timore. Qualcuno deve fermarlo. E così, determinati a interrompere l’inquietante spirale di sangue, si fanno avanti due uomini: il nobile conte Optari, formidabile guerriero germanico e fedele servitore della regina, e Tiberio, giovane e colto senatore, che vorrebbe restituire a Roma la grandezza perduta. Presto si renderanno conto che nella comunità di frati benedettini si nascondono segreti indicibili. C’è una sola certezza: l’assassino non si fermerà fino a quando la sua vendetta non sarà compiuta. Quali oscuri segreti nasconde il monastero dei benedettini?
È il 1951. In un piccolo casolare nella campagna del Polesine, dove i temporali ingoiano all’improvviso i cieli luminosi e il granturco cresce alto e impenetrabile, vivono Norma e Nilde, due cugine cresciute come se fossero sorelle dopo che un bombardamento durante la guerra ha ucciso le loro madri.
Nilde è una ragazza riservata e timorosa di tutto e la sua ansia aumenta quando Norma inizia a comportarsi in maniera strana. Da quando è caduta dalla bicicletta mentre raccoglieva le ciliegie, sua cugina non sembra più la stessa: scompare senza motivo ogni volta che scoppia un temporale, è scontrosa, non le parla, impedendole persino di avvicinarsi. Nilde prova a seguirla nei campi, ascolta le voci che circolano in paese, ma non riesce a capire perché la sua Norma, il suo punto di riferimento nella vita, bella come la Madonna del Magnificat che le loro madri tanto veneravano, le stia facendo questo.
Cosa spinge Norma ad allontanarsi da Nilde e a fuggire come una bestia selvatica al primo rombo di tuono? Cos’è successo quel pomeriggio lungo l’argine del fiume? Perché tra di loro quell’abisso improvviso di silenzi e bugie?
Il legame indissolubile che lega le due protagoniste verrà messo a dura prova da inquietanti apparizioni e inspiegabili fughe in una storia perturbante fatta di assenze e di mistero. Sullo sfondo, una terra magnetica, insidiosa come il fiume che la attraversa: quel Po che la rende fertile ma che talvolta la travolge per riprendersi tutto.
Un libro intenso e visionario in grado di scandagliare i segreti della natura e dell’animo umano. L’esordio straordinario di una giovanissima autrice.
La fragile legittimità di governi e istituzioni; il peso crescente di organizzazioni criminali dedite ai traffici illeciti; l’insicurezza generata dalle insurrezioni jihadiste; l’impatto sociale dei fenomeni di mobilità umana; la vulnerabilità di sistemi esposti a una variabilità climatica estrema: sono questi i principali fattori che fanno del Sahel – la fascia di territorio dell’Africa situata ai confini meridionali del Sahara – un’area geopolitica assai critica. Uno scenario reso persino più complesso dalla presenza di numerosi attori esterni, animati da interessi particolari e logiche di competizione strategica. Il volume indaga le cause e gli sviluppi della crisi nel Sahel centro-occidentale, una regione di interesse crescente per l’Europa e di importanza fondamentale per comprendere i problemi e le prospettive del continente africano.
Ma i disagi del clima sono compensati dal tepore del camino, sempre presente nella stanza da letto. Dove non ci si coricava soltanto; anche di giorno la camera era vivacemente utilizzata: per pranzare, studiare, ricevere visite. Sontuoso e imbottito, abbellito da nappe e cuscini, oppure umile pagliericcio, comprato al mercato o fatto su misura, il letto tutto racconta: la morte e la nascita, amori legittimi e amori proibiti, giochi festosi, atti di violenza e tripudio dei sensi, malattie, segreti e trame di ogni genere. Un luogo per due? Non necessariamente. A volte molto affollato e ad accoglienza variabile, come avviene nelle gustose novelle di Boccaccio, sul letto tenta di appuntarsi, senza molto successo, il controllo della chiesa che lo addita come luogo di ogni seduzione diabolica.
Un ragazzo, il suo cane, la discesa in un mondo magico e oscuro. Benvenuti nel lato oscuro del «c’era una volta». Charlie Reade è un diciassettenne come tanti, discreto a scuola, ottimo nel baseball e nel football. Ma si porta dentro un peso troppo grande per la sua età. Sua madre è morta in un incidente stradale quando lui aveva sette anni e suo padre, per il dolore, ha ceduto all’alcol. Da allora, Charlie ha dovuto imparare a badare a entrambi. Un giorno, si imbatte in un vecchio – Howard Bowditch – che vive recluso con il suo cane Radar in una grande casa in cima a una collina, nota nel vicinato come «la Casa di Psycho». C’è un capanno nel cortile sul retro, sempre chiuso a chiave, da cui provengono strani rumori. Charlie soccorre Howard dopo un infortunio, conquistandosi la sua fiducia, e si prende cura di Radar, che diventa il suo migliore amico. Finché, in punto di morte, il signor Bowditch lascia a Charlie una cassetta dove ha registrato una storia incredibile, un segreto che ha tenuto nascosto tutta la vita: dentro il capanno sul retro si cela la porta d’accesso a un altro mondo. Una realtà parallela dove Bene e Male combattono una battaglia da cui dipendono le sorti del nostro stesso mondo. Una lotta epica che finirà per vedere coinvolti Charlie e Radar, loro malgrado, nel ruolo di eroi. Dal genio di Stephen King, una nuova avventura straordinaria e agghiacciante, una corsa a perdifiato nel territorio sconfinato della sua immaginazione.
Tutto ha inizio con un inatteso dono di Natale. Un librone rilegato in similpelle blu navy con intarsi dorati, più simile a una Bibbia da motel che a un romanzo. Il volume in questione è Dalla parte di Swann, il primo tomo di Alla ricerca del tempo perduto nell’edizione dei “Meridiani” Mondadori. Marcel Proust, dunque. Un nome che risulta sconosciuto al beneficiario non meno che all’autore del regalo, entrambi all’ultimo anno di liceo. Sebbene abbia già avuto modo di mettere in carniere letture di un certo calibro, il giovane appassionato di storie non può immaginare che stavolta sarà tutto diverso. Man mano che si avventura nel folto intricato di quelle pagine, scandite da periodi che indugiano su se stessi incuranti della pazienza del lettore, concatenati in una sintassi apparentemente involuta che sembra non dover condurre da nessuna parte, l’immediatezza di lettura, l’entusiasmo spontaneo lasciano spazio a una perplessità incredula. Ci vorrà del tempo perché quella perplessità riveli la sua natura: fascinazione. Di quelle destinate a cambiare il corso dell’esistenza. Da qui prende le mosse l’incantesimo Proust. Come se la sua prosa non potesse entrare nella tua vita che di soppiatto. A distanza di tanti anni, ora che il tempo ha cristallizzato quelle prime impressioni, Alessandro Piperno si volge, per la prima volta in modo così intimo, alle ragioni di quell’incontro felice. Proust non è soltanto l’autore a cui ha consacrato buona parte della sua vita intellettuale. Che lo ha ispirato, come nessun altro scrittore ha saputo fare. Da un certo momento in poi è diventato fatalmente la misura per leggere gli autori amati, Montaigne, Woolf, Nabokov, Roth. Persino Céline, il più accanito nemico della Recherche. Attraverso “brevi divagazioni di marca plutarchiana, questo libro offre un approccio arbitrario e vecchio stampo che forse, se preso nel giusto verso, potrà giovare sia alla comprensione di Proust che a quella dei maestri che ho voluto affiancargli.
Nel raccontare con sincerità e commozione i primi quarant’anni di due vite inestricabilmente intrecciate agli eventi che hanno segnato il Novecento, Angela Terzani Staude ci affida in questo libro la sua trascinante storia d’amore con il marito Tiziano: una coppia che matura e si consolida affrontando sia le difficoltà personali e sentimentali, sia i problemi di una generazione e di una società alla strenua ricerca di identità e di valori. Tutto inizia a Firenze in un caldo pomeriggio di fine estate del 1957, quando Angela diciottenne incontra a casa di un’amica un giovane della sua stessa età che senza alcuna esitazione comincia a raccontarle di un suo viaggio in autostop e della volta in cui ha lavorato in un albergo di Losanna per pagarsi un soggiorno a Parigi, mostrandole così tutta la sua voglia di scoprire il mondo. Coraggiosi e ribelli, e animati dalla passione per la politica, dopo pochissimo tempo Angela e Tiziano iniziano la loro vita insieme, prima in Italia, poi in un continuo viaggiare per lavoro, dall’Europa agli Stati Uniti fino all’agognata Asia. Ed è nel corso di questi anni che in Tiziano Terzani si chiariscono le mete e i valori che orienteranno per sempre il suo modo di essere giornalista e il suo impegno etico e politico. In tempi in cui basta poco per definire «straordinaria» una vita, ben più che straordinaria ci appare quella vissuta da Angela e Tiziano: una vita libera e pienissima, trascorsa a viaggiare per il mondo sull’onda delle domande e delle passioni del loro tempo e inseguendo i grandi avvenimenti della Storia.
Oggi il museo non solo rientra fra i principali luoghi di formazione del sapere e di produzione culturale, ma, coinvolgendo l’uso politico del patrimonio, si rivela anche una potente arena per la rappresentazione, talvolta utopica, delle rispettive identità. Le eredità del passato, riconfigurate nel presente, generano così nuove narrazioni. Questo libro propone un approccio innovativo alla disciplina, che supera la tradizionale divisione netta fra la parte storica e quella metodologica, l’una consacrata alla genesi dei musei e alla storia del collezionismo e delle mostre, l’altra alle tipologie architettoniche, all’evoluzione degli standard museali e alle pratiche connesse a un’efficace gestione della «macchina museale». Raffaella Fontanarossa allarga inoltre la consueta prospettiva eurocentrica, indagando le concezioni, talvolta antitetiche, che hanno preso forma in contesti culturali e linguistici lontani dai nostri, come per esempio la Cina e il Giappone, dove si sta scrivendo un nuovo, significativo capitolo della lunga e affascinante storia dei musei.
Fin dove si spinsero i piú avventurosi Fenici, Egiziani, Greci e Romani? Si avventurarono già in giro per l’Africa? Cosa sapevano alla fine dell’antichità del resto del mondo abitato? Dove arrivarono gli Indiani e i Cinesi? Queste domande sono essenziali per conoscere la portata e l’intensità dei rapporti tra le grandi civiltà. Fin dall’antichità, Europa, Africa e Asia furono in contatto. Non dobbiamo aspettare Marco Polo o le grandi scoperte del Cinquecento per vedere uomini e donne che si muovono e si scambiano merci e conoscenze a enorme distanza. Dall’Islanda al Vietnam, dalle coste dell’Africa alle steppe della Mongolia, sospinti dal vento monsonico come la barca del ricco capitano di Palmira Honainu in viaggio verso l’India o al ritmo lento delle carovane che attraversavano il bacino del Tarim, marinai, mercanti e ambasciatori viaggiarono e raccontarono di paesi lontani. Percorrendo le pagine di questo sorprendente saggio, scopriamo ciò che i Greci sanno e ricevono dall’India, quello che i Cinesi conoscono di Roma, quanto l’India prende in prestito dall’arte e dal pensiero greco, senza trascurare le spedizioni dirette al Nord Europa o verso l’Africa subsahariana; e Indiani dispersi sulle coste danesi, greci trascinati via dai venti a Zanzibar o a Ceylon, mentre un ambasciatore cinese esita ad avventurarsi nel Golfo Persico. A partire da testi, resti archeologici e iscrizioni, Maurice Sartre racconta i primi incontri di tre continenti, svelandoci la nascita di un mondo unico.
Un tramonto e un’aurora, un declino e un’affermazione. La fine di Roma assomiglia a due figure che si rispecchiano l’una nell’altra, ora opposte ora strettamente connesse, come lo sono due lottatori che si stringono reciprocamente nel tentativo di sopraffarsi. In questo nuovo, affascinante affresco storico, Corrado Augias ci presenta la Roma cristiana, raccontando le storie di uomini, donne, luoghi e monumenti che caratterizzarono la fine del vecchio mondo, e annunciarono l’inizio e il trionfo di una nuova epoca. All’inizio del IV secolo l’Impero romano contava circa settanta milioni di abitanti, e si stima che meno del dieci per cento della popolazione aderisse alla religione cristiana. Una minoranza, ma in crescita. Adottare dunque quella religione, ammetterla tra le fedi consentite e dichiararsene membro, fu, da parte di Costantino, un gesto di immensa audacia. Dopo aver annientato il penultimo dei suoi concorrenti, Marco Aurelio Valerio Massenzio, nella famosa battaglia di Ponte Milvio, Costantino entrò trionfalmente a Roma percorrendo per l’intera lunghezza la via Lata (attuale via del Corso). Era il 29 ottobre del 312, giorno che può essere scelto come la data ufficiale di passaggio tra mondo antico e mondo cristiano. Ma nei fatti non è proprio cosí. Le date che indicano i grandi passaggi della storia umana sono sempre convenzionali. È difficile dire da quanto tempo quei nuovi modi di sentire e di vivere avessero realmente avuto inizio, quali e quanti fattori li avessero determinati e quali altri provocarono invece il declino e la scomparsa di riti, simboli, credenze, costumi sui quali milioni di individui avevano basato la propria esistenza. Resta che nel 324, diventato imperatore unico Costantino, la religione cristiana aveva assunto un’importanza e una dimensione mondiali e che sul finire del secolo l’imperatore Teodosio, detto il Grande, con il suo Editto di Tessalonica, la rendeva unica e obbligatoria. Era solo un primo passo; sarebbe stato via via completato proibendo culto e sacrifici pagani con la minaccia di punizioni severissime, compresa la pena di morte. In pochi anni i cristiani si erano trasformati da perseguitati in persecutori, e il mondo si apprestava a conoscere una nuova fase della sua storia. Tra sapere e meraviglia, Corrado Augias ci guida sui luoghi che furono protagonisti della rivoluzione cristiana, svelando monumenti e rovine che continuano a dare potente testimonianza della fine di un mondo. Ne risulta un’avventura affascinante – e un modo nuovo di vedere Roma – che dà alle pagine l’incanto che sempre deriva dal piacere della scoperta.
A pochi giorni dal funerale del fratello, Livia si ritrova in un museo di Mumbai, davanti all’immagine di una giovane donna avvolta in “un sari impalpabile e traslucido”, una principessa indiana. È vero, come legge nella didascalia che accompagna lo scatto, che la principessa ha venduto i suoi gioielli per salvare vite di ebrei? E che per questo è stata arrestata, ed è morta in un campo di concentramento? “È così,” scrive l’autrice, “che è cominciata quest’avventura: come un lampo di curiosità in un momento della mia vita in cui il senso di perdita era così intenso da oscurare sia il passato sia il futuro. Desideravo saperne di più. Desideravo capire che cosa avesse spinto una principessa del Raj a lasciare l’India per Parigi negli anni trenta; e soprattutto desideravo scoprire che cosa l’avesse trattenuta là finché era stato troppo tardi.” Istintivamente, visceralmente, Livia si lascia coinvolgere nel mistero, perdendosi nella storia del Raj britannico, tra i diamanti e gli zaffiri dei suoi palazzi, tra i balli e i giubilei dell’aristocrazia del Novecento, e nelle vite di personaggi straordinari come il maharaja Jagatjit Singh di Kapurthala, il banchiere ebreo Albert Kahn e l’esploratore russo Nicholas Roerich, tutte tessere di un mosaico che lentamente restituisce nella sua sorprendente interezza la figura di Amrit Kaur. Dopo l’incontro con la figlia ottantenne della principessa, “Bubbles”, la ricerca assume una nuova dimensione: mentre si sforza di riavvicinare una figlia alla madre che l’ha abbandonata, Livia si ritrova a sciogliere alcuni nodi della sua stessa vita. “Il segreto di Amrit Kaur” è un mystery basato su fatti e personaggi reali, un ritratto di donne, attraverso i secoli e i continenti, alla ricerca della libertà a qualsiasi costo. Un romanzo in cui perdersi, per ritrovarsi.
Beirut, 1948. Louis Pelletier e sua moglie Angèle sono emigrati da molti anni in Libano e hanno avuto quattro figli. Negli anni Venti Louis ha acquistato un modesto saponificio trasformandolo nel “fiore all’occhiello dell’industria libanese” e ne va enormemente fiero. Il figlio primogenito Jean, detto Bouboule, ventisette anni, è un uomo senza ambizioni, succube della terribile moglie Geneviève, con la quale si è trasferito a Parigi deludendo le aspettative del padre che l’avrebbe voluto alla direzione del suo impero. Il secondogenito, l’intraprendente François, sogna di fare il giornalista. Partito per Parigi, riesce a farsi assumere nella redazione di cronaca del giornale più popolare del momento. Nella capitale francese arriverà anche la figlia più giovane, Hélène, fragile e ribelle che entrerà in un giro di persone poco raccomandabili. Diversamente, il terzogenito Étienne, un sensibile “idealista senza ideali”, decide di seguire il suo amante, un militare in missione in Indocina, e si stabilisce a Saigon dove si scontrerà con una durissima realtà. Mentre i genitori rimangono soli e ignari a Beirut, in un’epoca in cui tutto sembra possibile e non lo è affatto, i figli devono fare i conti con amare delusioni e le conseguenze delle loro azioni, finché il passato irrompe nelle loro vite con il suo pesante bagaglio di inconfessati segreti. Drammatico e vitale, ironico e feroce, “Il gran mondo” è un’appassionante saga familiare e un romanzo d’avventura dal ritmo inarrestabile. L’autore mescola sapientemente storie d’amore, una serie di omicidi, il profumo dell’esotismo, scandali politici e finanziari, malefatte dell’impero coloniale con colpi di scena fino all’ultima pagina. Con “Il gran mondo” Pierre Lemaitre prosegue la sua opera letteraria dedicata al Ventesimo secolo, inaugurando una nuova trilogia dedicata agli “anni gloriosi” del secondo dopoguerra.
Inghilterra, dodicesimo secolo. Marie, bandita dalla corte della regina Eleonora d’Aquitania, che ama di un amore mistico e ardente, è una ragazza sola, figlia illegittima di re, inutilmente colta, inutilmente appassionata, destinata com’è a una vita di clausura in un’abbazia che ha conosciuto giorni migliori, abitata da un piccolo popolo di donne inacidite dalla segregazione, dispettose, anche solo vecchissime. Però Marie riconosce in quell’enclave isolata, così importante per l’economia del contado, una possibilità di crescita, di potere, anche. E così prende le redini di un’impresa tutta da costruire che la porterà a scivolare in silenzio fuori dal raggio autoritario del clero locale, verso un’indipendenza di spirito e di azione destinata a trasformare l’abbazia in un cuore pulsante di energie, fervido di progetti, illuminato, vivo, in cui ogni donna ha il suo posto e la sua occasione di brillare. Ma da fuori premono l’invidia, le chiacchiere, la curiosità morbosa per quell’Utopia prima del tempo, tutta al femminile; e la badessa Marie è la prima a rendersi conto che libertà di pensiero e controllo della comunità sono a tratti inconciliabili, che il potere si conquista e si mantiene a caro prezzo, e fa male a chi non ce l’ha, che le passioni, di qualunque tipo, sono pericolose. E non è detto che una donna, le donne siano più capaci degli uomini di tenere a bada tutto questo. Tra autentiche credenti, reiette e bastarde, figlie cadette, ragazze sole al mondo gettate via come stracci, il mondo dentro le mura del convento, al centro di un labirinto progettato per isolarlo dalle brutture del mondo, è complicato quanto quello di fuori, forse anche di più.
L’egittologo olandese Herman Raven sta perdendo la memoria. Di una vita intera scandita da grandi imprese archeologiche ricorda solo un segreto: nella sua cantina, decorata ad arte come una tomba faraonica, nasconde un antico e inestimabile sarcofago, contenente la mummia della regina Merneith, che fu l’eletta di Thoth, il dio egizio della scrittura e della sapienza. Da anni Herman se ne prende cura amorevolmente insieme all’amico Abdolkarim, figlio di un restauratore di libri antichi del Cairo ed ex operaio in una ditta di lavatrici all’Aia, che nella sua casetta olandese sul canale ha ricreato un tipico orto del Nilo. Ma tutto ha una fine, «tutto torna al luogo da dove è venuto», così Abdolkarim desidera ora tornare «a casa», e se riuscirà a riportare in Egitto anche la regina Merneith potrà dare un senso e un valore al suo destino di emigrato, senza sentirsi sconfitto. È questa la missione che i due vecchi idealisti, minacciati in sogno dai coccodrilli del Nilo, devono compiere a ogni costo prima di morire, sfidando le autorità, chi vorrebbe trarre profitto dal prezioso reperto e chi lo considera un falso, una folle invenzione, il capriccio infantile di due confuse menti senili. Del resto qual è la verità quando la memoria ci tradisce? E conta di più la realtà o una fantasia che dia luce e scopo ai nostri giorni? Da rifugiato che non sa se potrà mai rivedere la sua terra d’origine, Kader Abdolah racconta attraverso le avventure di due eroi al crepuscolo della vita una storia piena di humor e nostalgia sul diritto al «ritorno» – ritorno alla libertà dell’infanzia, ritorno alle proprie radici – per portare a compimento un’esistenza.
Chi era Ugo Cerletti? La scarna biografia di quest’uomo dice che nacque a Conegliano nel 1877 e che morì nel 1963. Di professione era uno psichiatra, formato nel tempo in cui la psicoanalisi freudiana si imponeva in tutta Europa. Ma Cerletti inseguiva altre idee e altre terapie: soprattutto una, quella che lui stesso chiamò con il termine di elettroshock. Inventare e soste – nere una pratica che in pochi decenni è diventata sinonimo di brutalità, di sofferenza e persino di tortura è stato per Cerletti una sciagura. Un uomo che ebbe un ruolo fondamentale nella storia della medicina diventò, agli occhi di molti, il carnefice dei pazzi. Un’onta che investí lui e la sua invenzione, di cui si mise in dubbio l’efficacia. Carlo Patriarca, medico, scrittore, ma soprattutto uomo abituato a leggere tra le righe di documenti d’archivio, capace di muoversi tra le pieghe della storia con rigore e precisione, in una sorta di romanzo-biografia prova a raccontare questa storia dal punto di vista di un ipotetico assistente di Cerletti. Un assistente che ha avuto la sfortuna di avere un fratello pazzo. Ne esce un romanzo suggestivo, vertiginoso, dove è in gioco il progresso della medicina ma anche l’orrore sociale verso la malattia mentale. Ne esce la storia drammatica di uno scienziato che pagò il suo modo di trattare e curare la follia. Il paradosso è che molti anni dopo la sua morte Cerletti sarebbe stato riabilitato, per quanto parzialmente. Quella macchina per curare i pazzi è stata riconsiderata. Ma questo l’inventore dell’elettroshock non avrebbe mai potuto immaginarlo. Pochi come Carlo Patriarca sono stati capaci di raccontarci la medicina con questa nitidezza: non solo come progresso, e non solo come scienza, ma anche come una strada frastagliata, imprecisa, spesso interrotta, persino insensata alle volte. Una strada controversa e ambigua assai più vicina alla letteratura di quanto si possa immaginare.
Beatrice de Luna Mendes, nata in Portogallo nel 1510, avrebbe potuto essere solo la moglie, assai benestante, di un commerciante di spezie di successo, Francisco Mendes, ebreo «marrano» convertito per aver salvi vita e beni, come tanti in quel tempo fosco di battesimi forzati e condanne per eresia, roghi di sinagoghe e autodafé. Ma quando il marito muore, e lei si trova a gestire la sua immensa fortuna per conto della figlia Brianda di appena sette anni, la vita della donna cambia. Deve dissimulare la sua vera fede, difendersi da chi vorrebbe approfittare di una donna sola, prendere in mano la responsabilità dell’impresa di famiglia, e non solo: decide che porterà avanti anche l’attività più segreta dei Mendes, usando il denaro e il potere di cui dispone per cambiare il destino di altri ebrei perseguitati, meno fortunati di lei. Dapprima si trasferisce nelle Fiandre, dove la stretta dell’Inquisizione è meno forte. Poi, nell’Europa sconvolta dalle guerre di religione, affronta una vita vagabonda: da Anversa a Venezia (dove riprende il suo nome, Grazia Nasi, che le era stato tolto con la conversione), a Ferrara, ad Ancona e infine a Istanbul, dove diventa una figura di rilievo presso la corte di Solimano il Magnifico. Edgarda Ferri anima la storia di una donna libera, disegnandola contro lo sfondo fastoso e fosco del Cinquecento europeo, arricchendola di dettagli in un racconto dagli orizzonti larghi, pieno di profumi, atmosfere e avventura, sfolgorante di coraggio.
Ciò che accade può sempre essere ricondotto a una catena di cause ed effetti, oppure la realtà è intrinsecamente indeterministica? Su questo problema si sono esercitati scienziati e filosofi, ma anche narratori. La letteratura ha infatti tradotto le idee della scienza in un periodo nel quale la divaricazione tra le «due culture» si è fatta sempre più ampia. Attraverso la lettura di Poe e Conan Doyle, Valéry e Gadda, Pirandello, Musil, Broch, Del Giudice, fino ad arrivare a Foster Wallace e McEwan, Francesca Romana Capone mostra in questo saggio, solido e originale, come il senso comune si sia progressivamente allontanato dallo spirito scientifico, a causa del restringimento di una base condivisa di conoscenze. Eppure, è proprio grazie alla forza evocativa e persuasiva della narrazione che la scienza può entrare nel nostro quotidiano e incidere sull’irrazionalismo dilagante.
1889. L’Esposizione Universale ha immesso nuova linfa alla città di Parigi, ma ha anche portato alla luce antichi segreti. Nessuno conosce le oscure verità quanto Séverin Montagnet-Alarie, cacciatore di tesori e ricco albergatore. Il potentissimo ordine di Babel lo contatta per costringerlo ad aiutarli in una missione, e Séverin si trova così a inseguire un tesoro che mai avrebbe immaginato: la sua vera eredità.
Viene pubblicato qui, in una nuova edizione italiana che ne restituisce tutto il suo carattere dirompente, il celebre saggio “Noi rifugiati”. Hannah Arendt lo scrisse di getto nel 1943, a due anni dal suo arrivo a New York. Testimonianza esistenziale di un’apolide d’eccezione, ma anche primo manifesto politico sulla migrazione, è una lettura indispensabile per orientarsi nello scenario politico attuale, dove è andata aumentando la massa di coloro che, presi tra le frontiere nazionali, vengono considerati corpi estranei, rifiuti ingombranti. Che ne è dell’accoglienza? E della partecipazione al mondo comune? Ricostruisce la lezione di Arendt, e riflette sui diritti umani dei rifugiati, il saggio conclusivo di Donatella Di Cesare. Gli Stati nazionali continuano a discriminare e respingere, mentre si moltiplicano i campi di internamento e le zone di transito a cui, nelle periferie dell’ordine mondiale, sono consegnati gli esseri umani ritenuti «superflui».
All’ombra delle mura di Troia, distrutta e depredata, i greci attendono di tornare a casa con lo sterminato bottino di guerra, donne comprese. Ma le troiane, dopo aver pianto i loro defunti, tenteranno di tutto pur di vendicarsi. Dopo “Il silenzio delle ragazze”, una nuova, rivisitazione di uno dei più grandi miti della storia classica. Troia è caduta e i greci, vittoriosi, fremono per rientrare in patria. Per farlo hanno bisogno del buon vento per l’Egeo, che tarda ad arrivare: gli dèi sono offesi poiché il corpo di re Priamo giace insepolto e profanato. I vincitori rimangono così in prossimità della città saccheggiata, insieme alle donne che hanno rapito. La splendida Elena, contesa dai due popoli; Cassandra, che ha imparato a non essere troppo fedele alle proprie profezie; la testarda Amina, con lo sguardo ancora fisso sulle torri in rovina, determinata a riscattare il proprio re; Ecuba la ribelle, che ulula sulla spiaggia silenziosa, quasi volesse risvegliare i morti; e infine Briseide, che porta in grembo il suo futuro: il figlio del defunto Achille. Insieme, stringendo alleanze e facendo leva sulle rivalità tra gli uomini, cercheranno la loro vendetta.
In un Paese che combatte per la libertà, un uomo e una donna si perderanno e si ritroveranno, legati da un istante voluto dal destino. Corea, 1917. È la disperazione a spingere il cacciatore. Da giorni segue le tracce sulla neve, nella speranza di trovare una preda con cui poter sfamare i suoi figli. Ma la ricerca viene interrotta dall’incontro con un gruppo di ufficiali giapponesi, persi tra quelle montagne. E dall’apparizione di una tigre. D’istinto il cacciatore interviene facendo fuggire la tigre, per poi guidare i giapponesi verso la salvezza. Un gesto che segnerà il futuro della sua famiglia. Jade ha solo dieci anni quando la madre la vende a una casa di cortigiane. Un sacrificio dettato dalla povertà, che però Jade ben presto capisce essere un’occasione. Solo le donne più belle e raffinate possono far parte di quel mondo e, un giorno, comprare la propria libertà. Tuttavia, quando una tragedia colpisce la casa, Jade è costretta a trasferirsi a Seul. Dove il suo destino l’aspetta… Alla morte del padre, Jung-ho non ha altra scelta che lasciare il suo villaggio di cacciatori e tentare la sorte nella capitale, ingrossando le fila dei giovani randagi che sopravvivono grazie a sotterfugi e piccoli furti. Eppure gli basta posare una volta lo sguardo su Jade, per capire di voler diventare un uomo degno di lei. Comincia allora la sua scalata verso il successo, prima nel sottobosco della malavita, poi nel mondo ancora più insidioso e ambiguo della politica, diviso tra i padroni giapponesi e il movimento nazionalista che lotta per l’indipendenza. Una corsa al potere su cui Jung-ho scommette ogni cosa, rischiando però di perdere tutto… Una grande epopea di riscatto, amore e guerra sullo sfondo di cinquant’anni di storia coreana.
«Ho deciso di partire. Non posso più restare qui, mi scoppia il cuore. Ho detto ieri al dottor Peyron che domani salirò sul treno e andrò via per sempre.» Come in un vero e proprio «diario ritrovato» Vincent van Gogh ci racconta, giorno per giorno, le ultime settimane della sua vita trascorse nel villaggio di Auvers-sur-Oise, a nord di Parigi. Un’autobiografia ideale e poetica, fatta anche di tanti ricordi, in cui Marco Goldin presta le sue parole al grande pittore olandese, con un passo narrativo coinvolgente e sempre fedele alle fonti storiche e all’epistolario. La scena si apre il 15 maggio 1890, quando Van Gogh lascia ancora fresco sul cavalletto l’ultimo quadro a Saint-Rémy, in Provenza, prima di andare a Parigi dal fratello Theo. E prima di prendere il suo ultimo treno per Auvers. Da lì in avanti il racconto si snoda avvincente, tra le strade strette di quel villaggio, la casa del dottor Gachet, le distese di erba medica su cui galleggia il rosso dei papaveri, il fiume che scorre lento, la chiesa con un cielo smaltato di azzurro come una vetrata gotica. E infine i campi di grano come un appuntamento con il destino. Van Gogh in mezzo al giallo di quel mare, con le presenze evocate non solo di Theo ma anche di molti altri personaggi. Un romanzo struggente e stretto alla vita fino al limite estremo.
Nel maggio 1938 Benito Mussolini ha quasi 55 anni, guida un impero che si estende dal Brennero all’Abissinia, ha proclamato l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni ed è in piedi che attende un treno in arrivo nella nuovissima stazione Ostiense. Su quel convoglio adorno di aquile e croci uncinate viaggia Adolf Hitler, che giunge in Italia accompagnato da una delegazione di gerarchi per una visita che toccherà Roma, Napoli e Firenze. Mentre il professor Bianchi Bandinelli – che nei suoi diari registra i tratti grotteschi di “Mario e Silla” e medita vanamente di attentare alle loro vite – guida i due dittatori ad ammirare la grande arte italica, il sole della concordia sembra splendere alto nel cielo. Non sono passate che poche settimane dall’Anschluss dell’Austria e dalla prima “informazione diplomatica” nella quale si parla di questione ebraica in Italia, eppure il mondo crede ancora che il delirio di potenza di Mario e Silla possa fermarsi. Ci crede fortissimamente, e contro ogni evidenza, anche il podestà di Ferrara, Renzo Ravenna, avvocato decorato nella Grande guerra e fascista zelante, che, come migliaia di altri ebrei italiani, non si dà pace per i provvedimenti seguiti all’approvazione delle “leggi razziali”, e rimane senza parole quando legge che il giornale diretto dall’amico Nello Quilici appoggia il decreto di espulsione degli alunni ebrei dalle scuole. Anche Margherita Sarfatti, che aveva iniziato il giovane Benito all’arte e alla diplomazia, paga con l’esilio le proprie origini ebraiche ed è ormai dimenticata in favore della giovane, fascistissima Clara Petacci. Tutto sembra procedere a gonfie vele, tanto che Galeazzo Ciano, genero del Duce e Ministro degli Esteri, può dedicarsi all’invasione dell’Albania ignorando invece le informative sempre più inquietanti che giungono da Berlino. E allora perché il Duce, rintanato nella sala del Mappamondo, sente l’angoscia corrodergli i visceri? Poco importa, la macchina della storia è in movimento e non è più possibile fermarla. Pateticamente illuso di poter influenzare le decisioni del Führer, consapevole della nostra impreparazione alla guerra, preda di uno spaventoso delirio, M trascina la nazione verso la tragedia: il 10 giugno 1940, ormai maschera di se stesso, si affaccia alla finestra di Palazzo Venezia per annunciare al mondo l’ora delle decisioni irrevocabili.
Il mito di Sissi ha resistito al tempo e alle mode, ovunque nel mondo, ma in Italia con una forza particolare. Ogni volta che il ricordo di Elisabetta d’Austria affiora, l’interesse generale si accende e un vasto pubblico si raccoglie per ascoltarne ancora la storia. Sembrava che tutto fosse stato detto e scritto su di lei, ma non è così. Attingendo ad archivi privati in tutto il vecchio continente e a fonti inedite, grazie a un enorme lavoro di ricerca e a un trasporto unico nei confronti della vicenda, la storica austriaca Martina Winkelhofer dà vita a una nuova biografia in cui emergono una Sissi sconosciuta e un percorso esistenziale unico, per umanità e universalità. In queste pagine prende corpo la storia della giovane Sissi, dagli anni della sua formazione a quelli del suo arrivo a Vienna: il matrimonio, le maternità, i viaggi, fino al momento in cui, dopo un periodo di difficile adattamento alla vita di corte, in maniera inaudita, Elisabetta pretende e ottiene dal marito il diritto di prendere decisioni per sé e per i suoi figli, senza chiedere permesso, e definisce così un traguardo straordinario per il suo tempo, il suo status e il suo genere. Martina Winkelhofer delinea una figura di donna eccezionalmente moderna per l’epoca, che usa il rango e la posizione in seno alla monarchia per rivendicare un’inedita autonomia, sia in senso politico, come imperatrice, che personale e familiare, come moglie e madre.
In questo classico della storiografia la cultura medievale è interpretata in prospettiva socioantropologica, secondo alcune categorie fondamentali: lo spazio-tempo, il diritto, il lavoro, la ricchezza, la proprietà, la persona umana. Ma qui, in contrasto con i dogmi di certa storiografia sovietica (da cui l’anatema di antimarxismo e revisionismo pronunciato contro il libro dalla nomenclatura politico-intellettuale russa), l’analisi è rivolta non tanto alla “sovrastruttura” ideologica che ha la sua base nella “struttura” economico-sociale del Medioevo, quanto alle idee sul mondo di cui gli uomini del tempo non sempre erano chiaramente consapevoli e che sfuggivano perciò a una completa ideologizzazione. La scelta di questo livello psicologico – in cui Gurevic privilegia le manifestazioni di massa della cultura medievale permette di accedere a un’immagine diversa dell'”uomo medievale”, mostrando come egli si rapportasse nella sua concreta vita quotidiana con l’ambiente fisico e sociale e come riconoscesse in esso un principio regolatore centrale.
James Brandon ha solo diciotto anni, ma è convinto che nella sua esistenza non ci sia posto per la felicità: Eliza, la donna di cui è perdutamente innamorato, è stata promessa in sposa al fratello, Harry. Disperato, decide di arruolarsi: lascia l’Inghilterra alla volta delle Indie orientali e ne fa ritorno solo diversi anni dopo… soltanto però per scoprire che Harry ha divorziato da Eliza e la donna, malata di tisi, sta per morire. Nonostante tutto, James non si arrende, neanche quando il destino sembra deciso a mostrargli il suo volto più crudele: Marianne Dashwood, l’unica donna dopo Eliza che ha acceso una scintilla nel suo cuore, gli rivela di essere innamorata di un altro. Ma è possibile che non ci sia nessuna luce di speranza per lo sfortunato e romantico colonnello Brandon? Con questo appassionante romanzo, Amanda Grange ha voluto rendere omaggio a un altro capolavoro di Jane Austen, “Ragione e sentimento”, narrandoci gli amori travagliati di James Brandon, dal punto di vista del giovane gentiluomo, in una attenta e accurata rivisitazione di un grande classico della narrativa di tutti i tempi.
Questo libro è una nuova e autorevole ricostruzione degli sviluppi epocali conosciuti dall’arte e dall’architettura dell’antica Mesopotamia, fondamento di molte tradizioni posteriori, dall’8000 a.e.v. fino all’avvento dell’Islam nel 636 e.v. Zainab Bahrani introduce i lettori alla produzione artistica di questa civiltà leggendaria che fiorì tra il Tigri e l’Eufrate – quella parte del Vicino Oriente che oggi corrisponde al moderno Iraq, al nordest della Siria e al sudest della Turchia – non mancando, nell’ultima parte, di affrontare le problematiche legate alle violente distruzioni patite negli ultimi anni da questo ricco patrimonio culturale. Ogni capitolo si concentra sulle forme e concezioni dell’opera d’arte, sull’estetica e la ricezione delle immagini. Le mappe aiutano il lettore ad orientarsi nella geografia e nella cronologia, rivelando le antiche città di Ur, Babilonia, Ninive, Hatra e Seleucia al Tigri. Accanto all’accurata ricostruzione del contesto storico e culturale, al centro dell’attenzione restano le opere stesse, sempre oggetto di raffinate analisi.
Seicento anni fa nasceva a Gubbio uno dei personaggi più significativi del Rinascimento italiano: Federico da Montefeltro. Mecenate e mercenario, coltissimo umanista e principe spregiudicato, la vita del duca di Urbino è un incredibile succedersi di avventure e cambi di destino. In tutte le raffigurazioni è l’uomo dalla faccia dimezzata, da quando, nemmeno trentenne, un occhio e la radice del naso li aveva perduti per un colpo di lancia ricevuto durante una giostra. Nella storia del Rinascimento italiano, Federico da Montefeltro, duca di Urbino, è il più stimato e strapagato condottiero, circondato dalla fama di non aver perso (quasi) mai una battaglia. Intelligente, coltissimo, ottimo stratega, bravo statista, abile diplomatico, scaltro (ma sempre elegante) curatore dei propri interessi, assieme al suo grande amore, la giovanissima e affascinante seconda moglie Battista Sforza, Federico riuscì a trasformare la corte del Montefeltro in uno dei centri della cultura e della politica italiane: a lui si deve la facies urbanistica e architettonica di Urbino, è lui che riesce a coinvolgere nel suo progetto culturale artisti e architetti come Piero della Francesca o Francesco di Giorgio Martini. Ma come ogni vita avventurosa che si rispetti, anche quella di Federico fu costellata da intrighi e misteri mai del tutto risolti: come riuscì da figlio ‘bastardo’ a impadronirsi del potere? Che ruolo ebbe nella famosa “congiura dei Pazzi”?
Dalle sabbie dell’Egitto del faraone eretico Akhenaton sino ai tragici eventi del Novecento, una storia il cui filo rosso ha inizio nella tomba di un re bambino vissuto quasi tremila e cinquecento anni fa. 4 novembre 1922: nella Valle dei Re, viene scoperta la tomba di Tutankhamon. La febbre dell’antico Egitto infiamma il mondo intero. L’egittologo Howard Carter e il suo finanziatore, il conte di Carnarvon, si trovano d’improvviso al centro dell’attenzione e, accanto alla curiosità di scoprire i segreti di una civiltà così lontana e misteriosa, si scatenano ben presto invidie, voci malevole e leggende di maledizioni. In Europa, intanto, nonostante il primo conflitto mondiale sia da poco terminato, sembra si corra incontro a una nuova, terribile guerra. A ravvivare le braci è, in particolare, il crescente antisemitismo, alimentato anche dal servizio segreto zarista, l’Ochrana, che fa redigere un falso documento – i Protocolli dei Savi anziani di Sion – per gettare discredito sulla finanza ebraica. Ma quando le manovre occulte di queste forze eversive sembrano a un punto morto, la scoperta del sepolcro del faraone bambino giunge come una provvidenziale soluzione. Non soltanto per via dei favolosi tesori che contiene, ma anche per i papiri perduti, quei papiri che – a detta dei responsabili della spedizione archeologica, Carnarvon e Carter – «sarebbero stati in grado di stravolgere i fondamenti delle religioni». 1341 a.C.: Nasce Tutankhamon, figlio di Akhenaton, il faraone eretico. Crescere a corte per il piccolo erede al trono è un continuo districarsi tra insidie e congiure, ma il peggio accade quando suo padre è costretto a scomparire. Nei pochi anni che gli restano, Tut custodirà gelosamente i papiri segreti che narrano il vero destino del faraone Akhenaton e del fratellastro, l’ebreo Mosè. Una verità preziosa, ma scomoda per il giovanissimo sovrano, suo malgrado al centro di spietate manovre e cospirazioni. Una cavalcata inarrestabile dalle sabbie dei deserti degli antichi egizi alle colline del Mediterraneo alla ricerca del più prezioso tesoro di ogni tempo. Un fiume tumultuoso che corre senza sosta dai fasti dei faraoni alle radici del male del secolo scorso.
Potere, amore, intrighi, emancipazione femminile e sorellanza in una Pompei brulicante di affari e di vita: un tuffo nel cuore della Storia antica. Personaggi di grande modernità tratteggiati con la sensibilità e la potenza emotiva di romanzi come La canzone di Achille e Il silenzio delle ragazze . Per tutti i fan di Madeline Miller, è in arrivo il primo capitolo della trilogia bestseller di Elodie Harper, ambientata nell’antica Pompei. Amara era l’amata figlia di un medico greco, finché la morte del padre non ha gettato la sua famiglia in miseria e la madre l’ha venduta come schiava. Ora è costretta a prostituirsi al lupanare di Pompei, il suo corpo proprietà di un uomo crudele e senza scrupoli. Astuta e piena di risorse, non ha altra scelta che sottomettersi e contare solo sulle bugie e sul desiderio che riesce a far nascere negli uomini. Ma Amara non ha intenzione di arrendersi e troverà un inaspettato conforto nelle altre ragazze del lupanare, ciascuna con la propria storia da raccontare, pronte a condividere risate e speranze. Presto Amara imparerà a conoscere non solo le persone che la circondano, ma anche la vivace città in cui è stata portata, ai piedi del Vesuvio; capirà che le strade di Pompei sono piene di opportunità, e perfino chi non ha più nulla può trovare un’occasione per rovesciare la sorte in suo favore. «Intenso, sapiente e deciso, questo libro è un trionfo». «The Times» «Un romanzo magnetico e ricco di dettagli sulla sorellanza e il coraggio, i fan di Circe lo ameranno». «Red» «Un racconto meravigliosamente acuto, vi sembrerà davvero di vivere e sentire Pompei in questo libro. Un risultato straordinario». «Financial Times» «Questo libro vivace e appassionante è impregnato di dettagli storici rimanendo sempre contemporaneo nelle tematiche. Harper narra questa storia coinvolgente con convinzione e spirito». «The Guardian» «Colorato, avvincente… La scrittura di Harper non indora mai la pillola su ciò che deve sopportare la protagonista, e alla fine si arriva a una sorta di redenzione, anche se dolorosa». «The Sunday Times»
È il 1934 e per Katya, ora che la fattoria di famiglia vicino Kiev non esiste più, c’è un solo posto dove trovare pace: il fazzoletto di terra miracolosamente scampato alla collettivizzazione sovietica, dove con la sorella Alina amava coltivare i girasoli. Era il loro gioco e il loro piccolo segreto. Sembrano passati secoli, ma solo pochi anni prima, quel giorno di primavera al matrimonio della cugina, il mondo di Katya era perfetto: sedici anni, il vestito più bello e le trecce legate in testa alla maniera tradizionale, la mamma, il papà, Alina… e Pavlo, l’amico di sempre che proprio quel giorno le aveva confessato il suo amore, e con cui Katya aveva sognato mille cose. Ora non esiste più nulla: i suoi genitori, Pavlo, Alina, non c’è più nessuno, l’Ucraina è in mano ai sovietici, e per piegare la nazione al suo volere Stalin ha escogitato un piano crudele, passato alla storia come Holodomor, il genocidio per fame che uccise milioni di ucraini, e che il mondo ha dimenticato. Solo i girasoli, oggi, sono ancora lì, pronti a seguire il sole e a indicarle la strada. Girasoli. È di questo che continua a parlare Bobby, l’amata nonna di Cassie, con quella strana lucidità delle persone ormai molto, molto anziane. Da quando Cassie ha perso suo marito, insieme alla piccola Birdie si è trasferita dal Wisconsin in Illinois, per stare con Bobby – così l’ha sempre chiamata, da babuška, la parola ucraina per “nonna”. È da lì che arriva Bobby, emigrata in America dopo la guerra, ma di quel mondo e di quel passato non ha mai raccontato nulla. Ma quando Cassie trova per caso un diario dalle pagine fitte scritte in ucraino, capisce che è arrivato il momento. Il momento di scoprire che cosa c’è nel passato doloroso di sua nonna, qual è il segreto che si porta dietro, perché nel sonno continua a ripetere un nome – Alina – e quella parola: girasoli…
Vita e passioni di Christine de Pizan, la prima scrittrice europea. Ha detto che uomini e donne sono uguali e che “una donna intelligente riesce a far di tutto e anzi gli uomini sarebbero molto irritati se una donna ne sapesse più di loro”. Ha detto che bisogna fare studiare le bambine e se solo le donne avessero fatto i libri… Ha detto che le donne non provano piacere a essere stuprate, come molti credono, ma subiscono un dolore senza pari. Lo ha detto un giorno in cui Parigi era un tempo più che un luogo, e l’anno 1405 era un luogo più che un tempo. Lo ha detto nel Medioevo insanguinato dalla Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra. Davanti a tutta la corte francese, a re e nobili. Christine de Pizan, nata in Italia, prima storica donna, prima editor, poetessa e scrittrice. Donna. Nicoletta Bortolotti ricostruisce la sua vita, che, dopo un’infanzia meravigliosa al seguito del padre divenuto astronomo reale a Parigi, fu colpita da lutti e rovesci che la lasciarono, giovanissima, vedova e madre. Il risultato è un libro meraviglioso che da un lato sembra provenire dal passato, a partire dalla forma epistolare scelta, che tanti capolavori ha regalato alla letteratura, e che qui si incarna nelle lettere tra una madre e una figlia. E dall’altro è assolutamente moderno. Perché molte delle conquiste sognate da Christine si sono verificate solo in anni recenti, e altre si stanno verificando adesso, o devono ancora farlo. Con Un giorno e una donna Nicoletta Bortolotti ha scritto un romanzo importante, che è al tempo stesso un’opera di grande valore letterario in grado di far rivivere le passioni e i sentimenti di un’epoca, un’opera di grande valore storico nella ricostruzione perfetta, per quanto immersa nell’immaginazione romanzesca, della vita e dell’opera di Christine de Pizan, e di valore etico, perché l’esempio di Christine possa servire da guida in questi anni non sempre facili.
Avete visto quanti titoli? Non vedo l’ora di scoprire quali saranno le novità di ottobre!! Non perdetevi il prossimo appuntamento!