Ed eccoci qui! Siamo arrivati al mese di febbraio che, come vedrete, è ricco di uscite interessanti e grandi ritorni. Alcuni di questi titoli stupiscono, alcuni confermano il talento di scrittori affermati, mentre altri erano attesi da tanto tempo.
Non attendiamo oltre e iniziamo!
Il debutto di “Fashion; or, Life in New York” al Park Theatre di Manhattan il 24 marzo 1845 fu un successo clamoroso. L’autrice era riuscita nel difficile compito di scrivere e far rappresentare la prima commedia di costume distintamente americana, portando i critici ad affermare, con tono patriottico, che il teatro statunitense non aveva nulla da invidiare a quello europeo. Di lì a poco, nello stesso teatro, Anna Cora Mowatt avrebbe debuttato anche come attrice, contravvenendo alla norma che allora precludeva questa professione alle donne della sua classe sociale. La tournée che ne seguì riscosse ampi consensi sia negli Stati Uniti sia in Europa. In quanto donna, in quanto americana e in quanto commediografa alle prime armi, Mowatt aveva compiuto un’impresa straordinaria che avrebbe influenzato il teatro e il costume contemporaneo. Fondamentale fu il suo talento umoristico e satirico, che si affermò in una cultura nella quale, almeno fino agli anni Settanta del ventesimo secolo, l’esistenza di una tradizione comica femminile ha stentato a essere riconosciuta. Ancora oggi Fashion è uno degli esempi più brillanti di questa tradizione.
Sullo sfondo di una Catania fiammeggiante di vita, commerci, religioni, dove i destini si incrociano all’ombra dell’Etna ribollente, Simona Lo Iacono ci regala il grandioso ritratto di una protagonista indimenticabile, fiera e coraggiosa, che combatte le superstizioni e le leggi degli uomini per affermare il diritto di tutti a essere curati e delle donne a essere libere.
Nata in un giorno di pioggia e di presagi, Virdimura porta il nome del muschio che affiora tenace dalle mura di Catania e della sua nascita non sa quasi nulla. A crescerla è suo padre, il maestro Urìa, medico ed ebreo, « il più alto dei giudei, il più forte, il più santo ». Un uomo che conosce i segreti delle spezie e i progressi delle scienze, che parla molte lingue, che sa che da tutto bisogna imparare: dalla natura, dalla strada, dalla poesia. A Virdimura insegna a guarire sia i corpi sia le anime, senza distinguere tra musulmani, cristiani o ebrei. E soprattutto le trasmette il segreto più importante: « La medicina non esige bravura. Solo coraggio ». Queste parole Virdimura ripete, ormai anziana, alla Commissione di giudici riunita per decidere se concederle, prima donna della storia, la « licenza per curare ». E davanti a loro Virdimura ripercorre, in un racconto vividissimo, tutta la sua vita: la lotta di suo padre contro l’epidemia di tifo che infesta la città, la solitudine dopo la sua scomparsa, gli studi instancabili sui libri che le ha lasciato, le donne visitate in segreto e operate di notte, le accuse di stregoneria da cui deve difendersi, e soprattutto il legame con Pasquale, l’amico d’infanzia che torna al suo fianco dopo un lungo apprendistato in Oriente, anche lui medico, per restarle accanto sempre, alleato fedele contro tutti gli attacchi della sorte.
Fantasmi che divorano la notte. Cupe ombre riflesse nel vuoto. La paura si specchia nella follia.
Quando il reale trascende i confini dell’ignoto, e la vita precipita in un incubo gravido di sventure, non esiste barriera tra finzione e follia. In questa raccolta Mary Elizabeth Braddon racconta l’abisso dell’imprevedibile, l’orrore celato nelle voragini dell’io. Braccia senza vita stringono promesse tradite, specchi evocano realtà illusorie, fantasmi senza nome bramano vendetta: in un gioco di riflessi dove la luce più abbagliante collassa nell’abisso più nero, sette racconti esplorano le crepe di un mondo che rovina nell’oblio, svelando l’inconscio che alberga in noi nel suo sinistro bagliore.
Proprio come in un’orazione, portando prove a sostegno della propria tesi e confutando gli argomenti di potenziali avversari, la più grande studiosa italiana di diritto greco traccia un profilo di Antigone spiazzante e inevitabilmente divisivo.
«Vittima com’è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della più celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtù non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l’omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell’eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica.
Tra “histoire totale” e “war game”, l’avvincente ricostruzione di una battaglia leggendaria al fianco di tutti i suoi protagonisti.
A voler essere radicali, e muovendosi liberamente tra la Scuola delle «Annales» e le serie cinematografiche, si potrebbe dire che, in storia, i giorni e gli eventi che vi si verificarono, per quanto straordinari possano essere stati, in sé e per sé non esistono. E se è spesso agevole arguire i loro sequels d’ampio respiro (benché quello di Trafalgar riservi alcune sorprese), meno scontato ma altrettanto, se non più, coinvolgente è risalire ai prequels o agli epiloghi definitivi, singoli e singolari. Così, se il «21 ottobre 1805 la Royal Navy si impadronì dell’incontrastato dominio sui mari del mondo» e la pax Britannica che ne derivò si estese per oltre un secolo, quella giornata non avrebbe potuto verificarsi senza un imponente pregresso, legato ai protagonisti, Nelson in testa, non meno che a un minuto e complesso insieme di fatti tecnici e sociali, che vanno dall’ingegneria navale al reclutamento, alla paga e alle ore di sonno dell’ultimo dei marinai. Perché eroi leggendari si diventa anche grazie a queste cose, nonché grazie a una “modernità” (il “Nelson touch”: nuovo, originale, semplice) riconosciuta da contemporanei a loro insaputa altrettanto moderni (e di sicuro molto sportivi) e, perché no, grazie al fatto di essere innamorati. Ma altrettanto eroico e leggendario è stato a suo modo ogni individuo che abbia navigato in queste pagine di guerra, fino ad approdare alla fine di un mondo. «Gli ultimi reduci della battaglia scomparvero alla fine del XIX secolo […] nel 1892, all’età di centocinque anni, se ne andò Gaspar Costela Vazquez, un marinaio spagnolo della Santa Ana, accompagnato da una banda della fanteria di marina. Le navi da guerra a vela erano ormai un relitto del passato: mai più due grandi flotte avrebbero affollato il mare e coperto l’orizzonte con le loro pallide piramidi di tela, al tempo stesso leggere e maestose, come era accaduto all’alba del 21 ottobre 1805 sull’onda lunga dell’Atlantico».
Cuore sacrale delle principali religioni monoteiste, cantata da salmisti e profeti, Gerusalemme vive da sempre una dicotomia. Sospesa fra Cielo e Terra, possiede due volti, spirituale e materiale, in perenne dialettica tra loro. Ciò, a maggior ragione, in quel Medioevo latino-germanico che fece della città il fulcro della propria concezione del mondo. L’Europa cristiana guardava alla Città Santa come alla propria meta ideale. Chierici, pellegrini, crociati, intellettuali e artisti, nobili e popolani, manifestavano il desiderio di andarci se non d’appropriarsene con la forza. Altri, invece, preferivano esaltarne il carattere spirituale. Nel tempo, tale tensione avrebbe dato adito al tentativo di traslarne in Occidente la sacralità attraverso l’erezione di santuari ad instar Sepulchri o la ricerca di reliquie eminenti. Il libro esplora la storia di Gerusalemme nei secoli medievali, con particolare riguardo alle sue molteplici dimensioni e al ruolo rivestito nei quadri culturali dell’Occidente medievale.
In parte fisica, in parte filosofia e storia delle idee, L’Uno è un libro che affascina per la sua visione rivoluzionaria del mondo, portando il lettore con maestria da Eraclito a Platone, da Galileo a Spinoza, fino ai giganti della fisica quantistica contemporanea.
Come tutto, anche questo libro sarà fatto di atomi, e gli atomi sono fatti di elettroni e nucleo, e il nucleo è composto di protoni e neutroni, i quali sono a loro volta composti di quark. Ogni cosa può essere scomposta in cose più piccole, la cui somma dovrebbe ricomporre l’oggetto di partenza. Ma è davvero così? Atomi, protoni e quark sono oggetti descritti dalla meccanica quantistica, disciplina che afferma che non si può scomporre un oggetto senza perdere qualche informazione fondamentale: la somma delle parti non dà il tutto. Se prendiamo sul serio la fisica quantistica non possiamo ridurre la realtà per capirla; la descrizione fondamentale dell’universo non può che essere l’universo stesso nel suo complesso. L’Uno, indivisibile. L’Uno è il racconto di una profonda crisi della fisica e del concetto quasi dimenticato che ha la capacità potenziale di risolverla. Si tratta di un’idea vecchia di 3000 anni: Tutto è Uno. Nel corso della storia è stata sostenuta da pensatori eccezionali, ma anche fieramente avversata, considerata irrazionale e perfino eretica. Oggi, però, proprio questo monismo radicale, secondo Heinrich Päs, può salvare la fisica dalla crisi che l’ha colta e dalla quale non riesce a uscire. Nella concezione monista la materia, lo spazio, il tempo e la mente sono soltanto artefatti della nostra prospettiva sull’universo. Nel mondo esiste solo una sostanza e tutte le sue singole manifestazioni sono solo un’illusione. In questo libro Heinrich Päs racconta come questo concetto si è evoluto e come ha plasmato il corso della storia, dall’antichità fino alla fisica moderna, non solo ispirando l’arte di Botticelli, Mozart e Goethe, ma anche entrando nel cuore della scienza, da Newton e Faraday a Einstein.
Un vertice della fantasia romantica presentato in un’edizione illustrata e annotata, arricchita da uno scritto di Charles Baudelaire.
Ambientato in una Roma immaginaria e monumentale, brulicante di vita e ubriaca di festa, «La principessa Brambilla» (1820) racconta l’amore tra l’attore Giglio e la sarta Giacinta. In una girandola di equivoci e travestimenti gli umili protagonisti si trasformano in sfarzosi principi e si lanciano in furiosi duelli, pazze danze e teneri corteggiamenti fino a un brioso lieto fine. Ispirandosi al grande incisore francese Jacques Callot e giocando con le maschere della Commedia dell’arte, E.T.A. Hoffmann riflette sulle dualità dell’animo umano, discetta sull’«influsso di un piatto di maccheroni sull’amore» ed evoca con rara maestria il folle spirito del Carnevale.
La storia della specie umana data da sei milioni di anni ed è stata ricostruita grazie ai numerosi fossili rinvenuti in tutto il mondo e alla traccia che ha lasciato nel nostro DNA. Le prime attestazioni della presenza umana si ritrovano in Africa; da qui l’uomo, in un processo di continua migrazione, ha occupato prima il Vecchio mondo e poi le Americhe. Il libro, nel ricostruire l’evoluzione della nostra specie, sottolinea anche la stretta parentela genetica con le scimmie antropomorfe africane – che molti studiosi ritengono di dover inserire nel nostro stesso genere Homo – e come l’essere umano sia da considerarsi solo una delle tante specie animali.
In che modo la storia mediterranea differisce da altre interpretazioni della storia? È possibile scrivere una storia mediterranea che non sia eurocentrica? Con quali strumenti gli storici possono confrontare diverse società, affrontare il tema delle interconnessioni e gli aspetti politici e culturali di questa area complessa e in continua evoluzione? La storia del Mediterraneo si sta affermando come una materia specifica. Il volume è una rapida introduzione a questo approccio storiografico, per comprenderne le ragioni e le caratteristiche fondamentali.
Il profilo unico delle montagne, o meglio ancora, le cime delle montagne, costituivano un segno di identità e di individualità imprescindibile delle antiche tribù nomadi. In un’esistenza fatta di precarietà e di erranza, di vite brevi, di assenza di certezze, di lotta per la sopravvivenza, i rilievi che si innalzavano sopra le valli erano una presenza fissa, un punto di riferimento, un legame permanente fra le generazioni e il territorio. Spesso il loro nome significava semplicemente “Grande Madre”. Si sa per certo che per le civiltà alpine e montanare il luogo più venerato era proprio la cima delle montagne legate a un’entità femminile, protettiva, includente, la Dea della montagna, che offriva ai suoi popoli continuità culturale, rituale, emotiva, nonché protezione dai dominatori che venivano invasi dal panico al solo pensiero di dover attraversare le “selve oscure”.
Il secondo capitolo dell’acclamata serie bestseller The Diviners trascina i lettori nel ventre occulto di New York nei suoi anni più ruggenti, alla scoperta degli incubi della città che non dorme mai.
Ci sono sogni per cui vivi. E sogni per cui muori. Dopo aver lottato con un serial killer soprannaturale, Evie O’Neill ha svelato la propria natura di Divinatrice. Ora che il mondo sa della sua capacità di “leggere” gli oggetti, e quindi di conoscere il passato, è diventata una beniamina dei media, l'”Adorabile Veggente” d’America. Sono tutti innamorati di lei… tutti tranne gli altri Divinatori. Henry DuBois, pianista, e Ling Chan, di Chinatown, fanno di tutto per tenere nascosta la loro facoltà di camminatori nei sogni. E mentre Evie si gode la bella vita, per New York si diffonde una strana malattia del sonno. E così, un potere malefico sembra infestare persino i sogni di Henry in cerca del suo amore perduto e di Ling che tenta di farsi accettare da un mondo che la rifiuta. In tutto ciò, nascosto nell’ombra, un uomo misterioso che indossa un cappello a cilindro tesse le sue trame oscure, molto più vaste di quanto chiunque possa sospettare, mentre l’inspiegabile morbo dilaga. Riusciranno i Divinatori a discendere nel mondo dei sogni e salvare la città?
In un confronto serrato tra gli altri con Hannah Arendt, Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, Reiner Schürmann, Miguel Abensour, pensatori della democrazia dopo la deriva totalitaria, Donatella Di Cesare riporta alla luce un rimosso di secoli e apre un’inedita prospettiva di ricerca sul nuovo anarchismo.
La democrazia è legata da un nesso indissolubile con l’anarchia. Nel tempo delle svolte autoritarie, in cui si pretende di difendere la democrazia chiudendola e murandola, questo libro muove dal pensiero radicale per guardare al mattino greco della pólis. La storia monumentale viene così decostruita grazie a un’originale rilettura delle fonti: un racconto avvincente che mette in luce le sequenze ribelli, gli scenari rivoluzionari. Pronunciata con trepido entusiasmo o con attonito disprezzo, la parola demokratía, di cui viene ripercorsa sia la storia semantica sia quella politica, indica due eventi collegati: l’ingresso del popolo alla ribalta della storia e la revoca di ogni potere che presume di essere originario. Lo spettro dell’anarchia turba la città. Lo paventano i tragici, lo registrano gli storici, lo denunciano i filosofi. L’arché di padri, proprietari, autoctoni, eredi viene profondamente minata e destituita di legittimità, mentre si inaugura lo spazio della politica. «Né comandare, né essere comandati» è il sigillo della democrazia, lo stendardo della libertà an-archica. Protagoniste di questo racconto sono le donne. È una rivolta di straniere, in fuga da violenza familiare, a far emergere, in un verso di Eschilo, il composto che indica la capacità del popolo di affermarsi. La democrazia nasce con l’accoglienza. E il dêmos non potrà mai né regredire a éthnos, fondandosi su legami di sangue e di suolo, né tanto meno soffocare il conflitto e la divisione.
È l’inizio del 2020 e in città giunge notizia di un nuovo virus potenzialmente letale. A New York i casi sono ancora sporadici e la gente, la scrittrice Lucy Barton fra loro, si aggrappa alla vita di sempre. Ma non William. William, il primo marito di Lucy, è un uomo di scienza, e la intuisce da subito, la catastrofe che sembra spazzar via la vita conosciuta; la grande paura che annienta le certezze e scuote le relazioni. Anche quella antica di due vecchi coniugi che credevano di aver esaurito le sorprese. Ancora una volta tocca far appello all’amore, alle sue forme strane e imperfette, per far sì che il comune dolore anziché allontanare unisca. Per salvarsi la vita.
La scrittrice Lucy Barton non ha mai cancellato un tour promozionale in vita sua. Eppure, quasi senza saperne la ragione, quel tour in Europa, previsto per i primi mesi del 2020, l’ha disdetto. «Meno male che non sei andata in Italia, – le diranno poi, – là c’è il virus». È William, lo scienziato William, il primo marito di Lucy, da poco reduce dal fallimento del suo terzo matrimonio e dal rifiuto di una sorellastra che non lo vuole incontrare, a passare all’azione per primo: Lucy ha poche ore per preparare un bagaglio essenziale, chiudere casa e partire con lui alla volta di una casetta in affitto sulle coste del Maine. Anche le loro figlie, Chrissy e Becka, e i rispettivi mariti dovranno raggiungere luoghi più protetti. L’imperativo per tutti, nei piani di William, è lasciare la città, con il suo brulicare di vita e pericoli, e mettersi al riparo. Pur incredula e sgomenta, Lucy accetta di seguire l’ex marito a Crosby, Maine. Per loro inizia così la routine interminabile di una quotidianità dilatata nella ripetizione di piccoli gesti sempre uguali a se stessi che la pandemia ha caricato di senso; una routine ammanettata all’assenza di vita – «Certe volte dovevo uscire di casa al buio e andare giù fino al mare, imprecando ad alta voce» – eppure preziosa perché garanzia della prosecuzione. E poi un inedito senso di solitudine e isolamento. La nostalgia. La preoccupazione per i cari distanti. L’amarezza di certi allontanamenti. La rabbia e la noia. La grande paura, individuale e collettiva: quella che fa avvicinare una furente abitante del luogo all’automobile con la targa della metropoli, urlando a una Lucy Barton sconvolta: «Maledetti newyorkesi! Via da casa nostra!» E poi l’ottusità, che la paura sempre porta con sé, in seno all’inconsapevole privilegio di chi la prigione può permettersi di scegliersela. Ma ci sono anche gli istanti di consolazione: una natura anch’essa ripetitiva, come le onde del mare che Lucy contempla, ma proprio per questo rassicurante; una chiacchierata dietro la mascherina, un abbraccio proibito e insperato con una figlia lontana, un incontro dal passato, e un percorso rovesciato di separazione in casa per due vecchi coniugi e amici e amanti chiamati a saggiare la trama della loro comune tela nel modo più brutale. Lo stesso di cui tutti noi ancora portiamo le cicatrici.
In questo audace romanzo, il finalista al Premio Pulitzer racconta la trasformazione della natura per mano dell’uomo: da foresta selvaggia, a orto di alberi da frutto, a prato pettinato, passando da catastrofi ambientali, parassiti e deforestazioni che hanno distrutto il patrimonio forestale americano. New England, XVII secolo. In principio ci sono un uomo e una donna, in fuga dalla Colonia puritana cui appartengono, braccati da uomini con archibugi e sciabole che vorrebbero trascinarli davanti al giudizio della comunità. Si nascondono, si amano cullati nel verde abbraccio della grande foresta del Nord, nuotano nudi nei torrenti, finché il giovane fuggiasco sceglie una pietra bianca e liscia per posarla in una radura in cui sorgerà una casupola in pietra e legno, il nuovo inizio. Non possono sapere, quei giovani amanti, che la casa nata dalla passione illecita e da un selvaggio ottimismo sarà abitata nei quattrocento anni a venire. Da un soldato inglese destinato alla gloria che abbandona i campi di battaglia del Nuovo Mondo per dedicarsi alla coltivazione delle mele. Da due gemelle nubili che insieme affrontano guerra e carestia, invidia e desiderio. Da un cronista di nera che porta alla luce una fossa comune, solo per scoprire che la terra si rifiuta di svelare i propri segreti. Da un pittore innamorato, un sinistro truffatore e, ancora, un puma famelico e uno scarabeo lussurioso. In quattro secoli, i protagonisti di questa grande storia dell’America si confrontano con la meraviglia e il mistero che li circonda, piccole esistenze lineari rispetto al perenne ciclo della Natura che si rigenera, eppure dirompenti al loro passaggio. La foresta del Nord ne porta i segni indelebili, con i boschi maestosi che si tramutano in radure, coltivi, prati pettinati. Tuttavia, all’ombra di quegli alberi antichi, si sente il passo cadenzato del tempo che avanza, al cui paragone ambizioni, trasgressioni, amori, tradimenti, rimpianti umani appaiono di una vanità struggente, insignificanti contro l’immensità.
Il Pescatore racconta di speranze infrante, di amicizia e amore e mistero, di meraviglia e orrori fuori dal tempo, di come sia impossibile elaborare certe perdite e di dove ci possano condurre ossessione e disperazione.
Durante un’uscita in una remota regione delle Adirondack, accompagnato dal suo amico Dan, Abe viene a conoscenza di un sinistro racconto del folklore locale su un misterioso corso d’acqua, il Dutchman’s Creek, e su alcuni uomini che hanno affrontato un’esperienza terrificante nella zona. Abe e Dan, affascinati dalla leggenda, decidono di rintracciare il torrente per la loro prossima battuta di pesca, ma in quelle acque scopriranno qualcosa di inimmaginabile, una dimensione abitata da una presenza antica e ultraterrena che parla con le voci di coloro che i due uomini hanno amato e perduto. “Il Pescatore” è un romanzo contemporaneo che spinge l’orrore lovecraftiano in territori inesplorati, tra mostruosità bibliche e richiami all’opera di Herman Melville. La scrittura densa e suggestiva di John Langan esplora i temi dell’amore e del lutto, danzando tra presente e passato, per raccontarci una storia spaventosa di fragilità umana, perdita e mistero.
Sepolcro in agguato catturerà i lettori tra le sue pagine, in un epico, indimenticabile nuovo capitolo della storia di Robin e Strike.
L’ormai famosa agenzia Strike ed Ellacott ha risolto molti casi inestricabili. Quello che rimane non risolto è il rapporto trai due soci, segnato da un’amicizia profonda e inquieta, tra slanci imprevedibili e sotterranee gelosie. Quando l’anziano Sir Colin Edensor chiede il loro aiuto per tirar fuori il figlio Will da una setta che lo ha plagiato, i due accettano senza esitare. In nome della lotta per un mondo migliore, la Universal Humanitarian Church allontana i suoi membri dai loro affetti e li induce a elargire enormi donazioni, diventando sempre più potente. Peccato che dietro a un leader dal carisma innegabile ci sia un passato sordido e ben più di una morte sospetta. Entrare sotto copertura nella sede principale, una fattoria sperduta nel cuore del Norfolk, sembra l’unica soluzione, e Robin è pronta a farlo. Ma intelligenza e preparazione potrebbero non bastarle: addentrarsi nel lato oscuro dell’UHC si rivelerà molto rischioso, tra vendette soprannaturali, ricatti ed ex adepti terrorizzati. Uniti come non mai, Robin e Strike dovranno mettere in campo non solo le loro capacità professionali, ma anche le risorse più personali e i ricordi più intimi, in una delle sfide più difficili e coinvolgenti in assoluto.
Caso letterario nel mondo nordico, vincitore del Premio August 2022 – il più alto riconoscimento per la letteratura svedese – I dettagli ha venduto più di 100.000 copie in Svezia. Una donna senza nome, sulla cinquantina, è a letto in preda alla febbre. Sulla soglia del delirio, le tornano alla mente frammenti e dettagli di quattro persone che hanno segnato la sua vita: c’è Johanna, ex fidanzata ora famosa conduttrice televisiva con la quale ha scoperto la letteratura; Niki, l’amica scomparsa improvvisamente anni prima senza lasciare traccia; Alejandro, arrivato come un temporale al momento giusto; e Brigitte, le cui ansie e qualità sfuggenti mascheravano un segreto doloroso. Persone che un tempo hanno significato tutto per lei e ora l’aiutano a ricomporre i resti della sua giovinezza nella Stoccolma degli anni Novanta: anni di feste e di progetti abbandonati, di amicizie e di amori tanto intensi quanto effimeri, quando in ogni casa c’era ancora la linea telefonica, la salute mentale non faceva parte del vocabolario quotidiano e si aspettava il nuovo millennio con ottimismo. Ma una persona cara può davvero scomparire? Diventiamo pienamente noi stessi attraverso le nostre connessioni con gli altri? E cosa svelano le nostre cicatrici? In questo romanzo dalla prosa delicata e precisa, Ia Genberg solleva domande profonde sulla natura delle relazioni e sul modo in cui raccontiamo le nostre vite, e ci fa ricordare quanto ogni esistenza sia sorprendentemente plasmata dal contatto intimo con alcune persone e dai tanti, apparentemente marginali, dettagli: un gesto, una canzone, una speranza tradita, un biglietto d’amore scritto in un libro.
Nella Norvegia medievale, la giovane Kristin si appresta a lasciare la fattoria del padre Lavrans per seguire l’uomo che ha appena sposato, Erlend, nella tenuta di Husaby. Il viaggio per mare è complicato e la ragazza riesce a stento a nascondere che è rimasta incinta prima del matrimonio. Il parto si avvicina e la protagonista spera che la madre Ragnfrid giunga ad assisterla, ma deve accontentarsi dell’aiuto di un gruppo di donne pressoché sconosciute. Ormai è la signora di Husaby e il suo primogenito è sano e bello. Il conteggio dei mesi, tuttavia, attesta un concepimento prematrimoniale, un’onta per la famiglia. Lavrans ne è addolorato, ma prova a perdonare la figlia. Passano gli anni e Kristin mette al mondo altri sei bambini. Gli impegni militari tengono lontano Erlend e il matrimonio conosce periodi di crisi. Intanto giunge la notizia che Simon, una volta promesso sposo di Kristin, si è fidanzato con Ramborg, la sorella minore della protagonista. Quando Erlend è accusato di un crimine contro la corona, Kristin non sa più a chi rivolgersi, e cerca sostegno proprio in Simon. Riuscirà l’uomo che tanto l’ha amata, e che forse la ama ancora, a salvare il marito di Kristin? A cent’anni dall’uscita in Norvegia, e dopo decenni di oblio in Italia, torna in una nuova traduzione il secondo volume della trilogia che valse a Sigrid Undset il premio Nobel per la letteratura, uno dei capolavori della letteratura mondiale.
Appassionato, lirico e splendidamente illustrato, Un mondo di meraviglie è un libro che instilla gioia e stupore.
Da bambina, Aimee Nezhukumatathil ha chiamato “casa” i luoghi più diversi: i terreni intorno a un istituto psichiatrico del Kansas, dove sua madre era medico; i cieli aperti e le alte montagne dell’Arizona, dove faceva escursioni con il padre; e i climi più freddi dello Stato di New York e dell’Ohio. Ma poco importa il luogo, poco importa quanto difficile sia stato l’adattamento o minaccioso il paesaggio: Nezhukumatathil è riuscita sempre a trovare una guida e un conforto nelle creature feroci e divertenti del nostro mondo. “Un pavone”, racconta, “è capace di ricordarti una casa da cui per tutta la vita non farai altro che scappar via per poi tentare di farvi ritorno”. E, a modo suo, l’axolotl ci insegna a sorridere, persino di fronte alla scortesia. La sensitiva, o Mimosa pudica, ci aiuta a scrollarci di dosso le avances indesiderate. Il narvalo ci mostra come sopravvivere in ambienti ostili. Sono molti i modi in cui la natura e i suoi abitanti possono darci insegnamenti, sostegno e ispirazione. Anche in ciò che è strano o sgradevole, l’autrice coglie incanto e affinità. Funziona così, con la meraviglia: dobbiamo essere abbastanza curiosi da guardare oltre le distrazioni per apprezzare appieno i doni del mondo.
Una distesa insieme maestosa e spietata, dove né il viaggiatore ben armato né il bisonte più robusto sanno per certo se arriveranno a sera: ecco l’Ovest americano alla metà dell’Ottocento. Gus e Call – l’avventato e il giudizioso, il fanfarone e il taciturno, il donnaiolo e il riluttante – sono come il giorno e la notte, ma hanno una cosa in comune: tanta voglia di avventura. Perché, allora, non entrare nei Texas Ranger? Tutti sono stati giovani, anche gli induriti cowboy protagonisti di “Lonesome Dove”: questa è la storia di come tutto ebbe inizio. Tutti sono stati giovani, anche Gus e Call, gli induriti venditori di bestiame protagonisti di “Lonesome Dove”. A quell’epoca, gli anni Quaranta dell’Ottocento, le praterie a ovest di San Antonio erano ancora selvagge e dominate dagli indiani. Dunque chi meglio di due ragazzi sbandati e un po’ ingenui per rimpolpare la compagnia di Texas Ranger in partenza per El Paso? Un fucile, un cavallo, la promessa di una paga e si va. Ma in giro c’è Buffalo Hump, l’abile e brutale capo comanche, e il battesimo della strada si celebra con il sangue. La vita in città è senz’altro più sicura, ma anche più noiosa. Ecco, quindi, che Gus e Call si rimettono in viaggio unendosi a una spedizione per la conquista di Santa Fe, florida città del New Mexico. A guidarli c’è un ex pirata che della terraferma non si intende molto. È un male, perché stavolta la lista dei pericoli è davvero lunga: ai Comanche con la passione degli scalpi si aggiungono Apache amanti delle torture, messicani più combattivi del previsto e una natura inospitale fatta di orsi inferociti, fiumi in piena e siccità estrema, che mostra il suo lato peggiore nel famigerato «cammino del morto». A partire sono in duecento, ma non tutti faranno ritorno. “Il cammino del morto” fa parte della quadrilogia del West che ha reso celebre McMurtry: pubblicato dopo “Lonesome Dove” e “Le strade di Laredo”, è il prequel che racconta come tutto ebbe inizio.
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