Agosto è un mese complicato. Le case editrici vanno in ferie, c’è voglia di andare in vacanza e spesso si pensa che le uscite di questo periodo siano meno importanti, che escano libri di serie B, con la speranza che passino in sordina. Ma le cose stanno davvero così? Vediamo insieme le proposte le nuove uscite in libreria di agosto 2023!
Londra, 1895. Mabs Daley ha diciotto anni e, da quando è morta sua madre, si è assunta il gravoso compito di provvedere alla sua numerosa famiglia. Per farlo, ha indossato abiti maschili, nascosto i capelli sotto un logoro berretto e detto a tutti di chiamarsi Mark. Il lavoro, che consiste nel trasportare blocchi di ghiaccio dal Regent’s Canal alle dimore degli aristocratici, è duro e faticoso, ma Mabs è determinata a non soccombere. Certo, se dovesse presentarsi una possibilità di migliorare le proprie condizioni, una qualsiasi, lei la coglierebbe al volo. Olive Westallen, che di anni ne ha ormai a sufficienza per essere considerata una zitella, è l’unica figlia del capitano Westallen, ex eroe della marina mercantile. Appartiene a una famiglia agiata, ma l’aspetto scialbo, un carattere fermo e un’ottima istruzione non la rendono certo un buon partito. Allo scoccare del suo ventottesimo compleanno, tuttavia, Olive realizzerà il sogno di diventare madre presentandosi all’orfanotrofio per adottare una di quelle bambine silenziose che aspettano solo la loro occasione di avere una famiglia. La dodicenne Otty Finch, invece, si è appena trasferita con la famiglia da Durham. Suo padre si è assicurato una nuova e meravigliosa opportunità di fare soldi acquistando delle azioni del Regent’s Canal, ma non è questo l’unico motivo per cui i Finch si sono precipitati a Londra. Sembra, infatti, che siano fuggiti da uno scandalo, una terribile vicenda che riguarda la signora Finch, la quale ora trascorre il proprio tempo a fissare il giardino dove si aggrovigliano furiosi i rami spogli, irti di spine, delle rose. Quando a Mabs viene offerta la possibilità di lasciare i canali e diventare la dama di compagnia della signora Finch, accetta senza esitazioni, incredula davanti alla prospettiva di lavorare in una dimora signorile. Ma nulla è mai davvero come appare, e Mabs, Otty e Olive verranno presto trascinate in una storia piena di ombre, di antichi rancori e segreti troppo a lungo taciuti…
Ultimo erede di un’illustre casata portoghese, il giovane Carlos da Maia avrebbe tutto per essere felice. È bello, è ricco, ama la scherma, l’equitazione e, riamato, le donne, ha buon gusto e ha fatto buoni studi, si accinge a intraprendere la carriera di medico e sogna di scrivere un definitivo trattato sulla medicina… È soprattutto però un superbo quanto inconsapevole dilettante della vita e in quel Portogallo di fine Ottocento che malinconicamente si confronta con la propria decadenza, è anch’egli vittima dello stesso spleen esistenziale in cui si crogiolano gli intellettuali e i politici che animano la società di Lisbona. Schiacciati da un passato imperiale ingombrante, ma ormai lontano nei secoli, consapevoli della miseria e dell’arretratezza nazionale, ansiosi di legarsi alla modernità e al progresso di Londra e di Parigi, Carlos da Maia e i suoi amici, João da Ega, cosmopolita e ateo, il poeta Alencar, dandy e romantico, il musicista Cruges, sognatore e ingenuo, vorrebbero reagire all’immobilismo che li circonda, risanare il Paese e con esso sé stessi. Ma a bloccarli è un senso di inutilità. E così si arrendono senza aver nemmeno combattuto. Costruito intorno alla storia di una passione fatale, pittura di costumi satirica quanto impietosa, “I Maia” racconta non solo il destino di una persona, ma quello di un’intera famiglia, capostipite di quegli affreschi storico-letterari che dai “Buddenbrook” di Mann alla “Saga dei Forsyte” di Galsworthy, al Gattopardo e ai Viceré di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto hanno segnato un genere. Considerato il capolavoro di Eça de Queiroz, scritto con uno stile luminoso in cui si mescolano l’ironia e la passione, “I Maia” ha immortalato Lisbona nella letteratura.
Le mirabolanti e perfide avventure di un terribile mago tratte dal seguito delle Mille e una notte raccontate nel 1789 con impareggiabile maestria da Monsieur Cazotte.
Buono il Maugraby non lo è stato neanche da bambino. Figlio di un sortilegio e servitore fedelissimo di Zatanai, al quale si è consacrato per naturale vocazione e brama di potere, questo mago sadico e affascinante, che con un sol colpo di bacchetta può scendere nelle viscere della Terra e trasformare gli umani in animali, si aggira sotto mentite ed efficacissime spoglie pronto a seminare panico e dolore ovunque posi piede. Il suo obiettivo? Incantare e rapire quanti più principi e principesse per farne schiavi e rampolli e assoggettare così l’intero pianeta. Uno dopo l’altro ha già messo in ginocchio i fatati e sgargianti regni di Persia, Egitto e Tartaria, ma presto o tardi anche il suo trono di terrore finirà per vacillare… Pubblicate nel 1789, le storie de “Il mago Maugraby” fanno parte del prosieguo de “Le mille e una notte” al quale Jacques Cazotte consacrò i suoi ultimi sforzi letterari. Attingendo all’immaginario di quell’inesauribile fonte di narrazioni, Cazotte ha saputo inventare una Sherazade dalla voce roca, cantrice ed emblema di un Settecento inquieto.
“De Europa meditatio quaedam” è il titolo della conferenza tenuta da José Ortega y Gasset il 7 settembre 1949. Si tratta di un testo affascinante, denso, mai banale, che costituisce la summa del pensiero del filosofo madrileno. Ortega non tratta della guerra, ma la guerra è lì, aleggia come uno spettro. In breve, è la sua premessa necessaria. Resta solo da indicare la via d’uscita. Per fare questo, occorre interrogarsi con sincerità sulle cause che hanno gettato l’Europa nella disperazione. Un’Europa che era unità e pluralità: di abitudini, di usi, di lingua, di diritto, di potere politico. Poi, a un certo punto, la nazione è divenuta matrigna, si è fatta programma politico ed è degenerata nel nazionalismo, in un concetto artificiale che ha finito per aprire le porte alla guerra civile. A quattro anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, la dimensione del mondo si è già contratta. Recuperare, allora, la dimensione esistenziale dell’Europa diviene una necessità impellente: perché i popoli e le nazioni esistono. È da qui che occorre ripartire.
Durante un viaggio in nave, il signor Hammond ascolta due passeggeri, saliti a bordo all’ultimo minuto e quindi non sottoposti ai controlli dei bagagli, discutere di un diabolico piano che sarà eseguito alle 22.00 della stessa sera, utilizzando una scatolina quadrata. Insospettito, l’uomo ne parla a un amico, che però non crede ci sia qualcosa di losco. Quando si avvicina l’orario stabilito, i due clandestini vanno sul ponte, ma il piano non andrà come avevano previsto.
Al dipartimento di polizia di Tokyo c’è tensione. Tutta colpa del ritrovamento del cadavere di un uomo che ha in tasca il biglietto da visita di un noto ispettore: Takeshi Nishida, il detectivehāfu, il mezzosangue nippoamericano della squadra Omicidi. Nishida, suo malgrado chiamato direttamente in causa, nel vedere il volto della vittima riconosce un suo compagno di classe. Ma che cosa ci faceva adesso, a distanza di anni, con il suo contatto? Che cosa voleva dirgli? L’ispettore dovrà fare l’impossibile per scoprirlo, e la ricerca della verità lo porterà a inoltrarsi lungo le strade di Tokyo, fino ai quartieri in cui scorrazzano ibōsōzoku, le «tribù della corsa violenta», gang di motociclisti che provocano disordini, e forse qualcosa di molto più inquietante. Con “I diavoli di Tokyo ovest”, Tommaso Scotti non crea solo un giallo e un thriller avvincente, ma con uno stile prepotentemente evocativo scende più a fondo, toglie il velo delle apparenze di cui si ammanta la cultura del Giappone, mostra che cosa c’è dietro le illusioni di educazione, silenzio e ordine: il lato più oscuro dell’uomo.
La casa sull’abisso (1908) è un horror soprannaturale. Il romanzo è il resoconto fantastico del soggiorno di un recluso in una casa isolata e delle sue esperienze con creature soprannaturali e dimensioni ultraterrene. Lo scrittore horror americano H. P. Lovecraft ha annoverato La casa sull’abisso e altre opere di Hodgson tra le sue maggiori influenze e Terry Pratchett ha definito il romanzo “il Big Bang del mio universo privato di lettore di fantascienza e fantasy e, in seguito, di scrittore”.
Oxford, 1836. La città delle guglie sognanti. Il centro di tutta la conoscenza e l’innovazione del mondo. Al suo cuore c’è Babel, il prestigioso Royal Institute of Translation dell’Università di Oxford. La torre da cui sgorga tutto il potere dell’impero. Rimasto orfano a Canton e portato in Inghilterra da un misterioso tutore, Robin Swift credeva che Babel fosse un paradiso. Fino a che non è diventata una prigione… Può uno studente lottare contro un impero?
La magia sta svanendo, l’umanità sembra voler bandire gli Antichi Spiriti dal suo destino, respingendoli sempre più a occidente, oltre ogni luogo conosciuto. Se nessuno interviene, l’Irlanda rischia di perdere le sue radici mistiche. Profezie perdute nella notte dei tempi hanno già previsto tutto questo, e hanno indicato la via per evitarlo: per essere salvati gli spiriti della terra di Erin devono guardare al clan di Sevenwaters, una famiglia legata alla linfa vitale della terra, che ha giurato di preservare la magia, pagando la promessa con grande gioia e grande dolore. Spetterà a Fainne, figlia di Niamh, la perduta sorella di Sevenwaters, sciogliere gli enigmi del potere. Timida e solitaria, è stata cresciuta dal padre, l’ex druido Ciarán, figlio della perfida strega Oonagh. Riemersa dalle ombre, la vecchia incantatrice non si fermerà davanti a nulla pur di distruggere tutto ciò per cui lotta la famiglia di Sevenwaters: neanche al sacrificio della sua stessa nipote. Riuscirà Fainne a contrastare la sua malvagità e salvare coloro che ha imparato ad amare?
Nel Ventunesimo secolo, i lettori non hanno più bisogno dei negozi fisici per comprare libri. E vendere volumi non è abbastanza per tenere in piedi una libreria, soprattutto dovendo fare i conti con la concorrenza spietata di Amazon. Allora cosa rende le librerie più necessarie che mai? Jeff Deutsch è il direttore di una delle librerie più amate d’America, la Seminary Coop di Chicago, che nel 2019 è diventata un’organizzazione non profit, primo caso nel Paese. Con una devozione per la parola scritta che ha origine nella sua infanzia in una comunità ebrea ortodossa, e dai suoi incontri con librai, scrittori e lettori straordinari nasce questa anomala guida per esploratori di buone librerie. Un prontuario che, come una libreria, contiene moltitudini: liste di classici fondamentali, libri del momento e libri di ogni tempo, categorie di lettori, regole per mettere in ordine la propria collezione di volumi, aforismi e molto altro. In cinque capitoli densi di riferimenti letterari, i libri, i lettori, gli scaffali e i corridoi prendono vita per rendere la libreria un luogo di esplorazione e scoperta. Un luogo in cui il libraio ha un ruolo quasi iniziatico: guidare, seppur con discrezione, il lettore in un viaggio la cui destinazione è ignota. Consentire, a chi ha la capacità di perdersi e un po’ di curiosità, di fare incontri che cambiano la vita.
A metà tra storia d’amore e romanzo gotico, Gli animali di Lockwood Manor è un racconto dalle atmosfere stregate che parla di famiglia e follia, segreti a lungo sepolti e desideri nascosti.
Agosto 1939. La guerra incombe su Londra e Hetty Cartwright viene incaricata di portare in salvo la preziosa collezione di mammiferi impagliati del Museo di storia naturale. Quando giunge a Lockwood Manor, futura dimora del museo, Hetty si rende conto che il suo compito è più difficile del previsto. Deve vedersela con l’irascibile Lord Lockwood e con i suoi domestici tutt’altro che collaborativi; e, come se non bastasse, alcuni degli animali della collezione iniziano a scomparire. Hetty ha l’impressione che qualcuno – o qualcosa – la stia pedinando tra le buie stanze della magione. Mentre la situazione precipita, Hetty stringe un legame sempre più profondo con Lucy, l’affascinante e tormentata figlia di Lord Lockwood.
Premio Jacques de Fouchier 2021 dell’Académie française. Premio speciale della giuria al Grand Prix du livre d’archéologie 2021.
Come non esistono uomini senza memoria, così non ci sono società senza rovine. Questo libro si propone di chiarire il rapporto indissolubile che le diverse culture hanno intrattenuto con le rovine, nell’intreccio fra il desiderio di lasciare tracce grandiose, il culto del passato e la trasmissione della memoria. Passando da una civiltà all’altra – dagli Egizi ai Cinesi, dai Greci ai Romani, dal Rinascimento all’Illuminismo – Alain Schnapp si affida tanto alle fonti archeologiche quanto alla letteratura. Splendidamente illustrata, questa “Storia universale delle rovine” è l’opera di una vita. «Il lettore potrà avventurarsi in questo libro sapiente e magnifico assecondando le proprie curiosità, i ricordi o il desiderio di conoscenza, come se visitasse un sito archeologico o una pinacoteca… invitato a confrontarsi con la paradossale presenza di ciò che è scomparso» (Roger Chartier, «Le Monde»). L’antico Egitto affidò la memoria dei suoi sovrani a giganteschi monumenti e imponenti iscrizioni. Altre società preferirono stringere un patto con il tempo, come i popoli della Mesopotamia che, consapevoli della vulnerabilità dei loro palazzi di mattoni di fango, seppellivano nelle fondamenta le iscrizioni commemorative. I Cinesi dell’antichità e del Medioevo impressero la memoria dei re e dei personaggi illustri in iscrizioni su pietra e bronzo, le cui matrici erano custodite da scrupolosi antiquari. Altri ancora, come i Giapponesi del santuario di Ise, distruggevano per poi ricostruirle identiche, in un ciclo infinito, le loro architetture di legno e paglia. Altrove, in Scandinavia e nel mondo celtico, come in quello arabo-musulmano, sono i poeti o i bardi i responsabili del mantenimento della memoria. Greci e Romani consideravano le rovine un male necessario che bisognava imparare a interpretare per comprenderle. Il mondo medievale occidentale affronterà l’antico patrimonio con un’ammirazione venata di repulsione. Il Rinascimento intraprese invece un ritorno all’antichità diverso, considerandola un modello da imitare ma anche da superare. Infine, l’Illuminismo costruì una coscienza universale delle rovine che si è imposta come «culto moderno dei monumenti»: un dialogo con le vestigia del passato che vuole essere universale e che questo libro testimonia con straordinaria dovizia.
Il Polacco, un pianista noto per le sue interpretazioni austere, sviluppa per la più giovane Beatriz un amore lirico e irragionevole. Lei, che ama farsi trasportare dalla musica, è riluttante a farsi trasportare dal lirismo, e si oppone all’idea di diventare una musa, un oggetto del desiderio, la sua Beatrice. Rivelarsi l’uno all’altra è un’arte sottile, destinata forse a rimanere inattingibile, che solo la scrittura esatta e imprevedibilmente ironica di J. M. Coetzee riesce a catturare. «Con “Il Polacco” Coetzee torna a vecchie e feconde ossessioni – gli opposti segreti di una vita, la tensione tra implicito ed esplicito, tra predestinazione e volontà – e si inserisce nella famiglia dei romanzi con pianista, come “Il soccombente” di Thomas Bernhard, “Gli inconsolabili” di Kazuo Ishiguro e “Ravel” di Jean Echenoz» («Clarín»). Lei è una donna elegante, della buona società di Barcellona. Lui è un pianista settantenne, austero interprete di Chopin. Il nome di lei è Beatriz, quello di lui è così pieno di w e di z che lo chiamano semplicemente «il Polacco». Dopo il concerto organizzato dal circolo musicale del Barri Gòtic e la successiva cena, non paiono destinati a rivedersi. A lei, in fondo, il concerto non è neppure piaciuto: troppo secco e severo. Eppure, a distanza di mesi, il Polacco torna in Spagna: «Sono qui per te». Da quando l’ha incontrata, la sua memoria è piena di lei. Beatriz, assicura il Polacco, è per lui ciò che Beatrice era per Dante: il suo destino, la risposta all’enigma della sua vita. Beatriz non è d’accordo – «Io sono colei che sono!» –, non apprezza i complimenti di lui, lo trova arido, cadaverico, privo di ardore. Qualche giorno insieme a Maiorca, un’avventura incerta in una lingua, l’inglese, che non è quella di nessuno dei due. È tutto ciò che Beatriz concede al Polacco, alla sua ammirazione per lei. Poi più nulla. Ciò che rimane della loro storia, del cieco amore del pianista per la donna «dalle domande profonde» sposata con un banchiere, è in ottantaquattro poesie scritte in polacco. Farle tradurre anziché bruciarle, o anziché lasciarle in un appartamento di Varsavia, è l’unico modo che Beatriz ha per avvicinarsi per l’ultima volta a lui, al suo esasperante, nobile, indecifrabile amore. Ciò che ne risulta è un accesso mediato a un’opera imperfetta, al lascito di un uomo a cui «manca l’arte che ravviva la parola». Punteggiata di ironia, questa breve storia di amore e differenze coinvolge la poesia, la musica, il linguaggio, il trasporto – quello dei sentimenti e quello indotto da Chopin – e la sua traduzione in parole, e offre un inconsueto ribaltamento del punto di vista, dando voce al «provvido scetticismo» di una moderna Beatrice.
60 d.C. Il dominio dell’impero romano sulla Britannia è sempre più instabile. Le tribù ostili a Roma, per quanto divise, costituiscono ancora una minaccia, mentre l’imperatore sembra del tutto sordo ai segnali di pericolo. Per piegare definitivamente la resistenza barbara nella parte occidentale dell’isola, il governatore Gaio Svetonio Paolino mette insieme una vasta armata coinvolgendo nell’impresa Catone, eroe di mille battaglie. Questa volta Catone dovrà fare a meno dell’aiuto del fidato Macrone. Il centurione, infatti, viene lasciato al comando delle riserve stanziate nella colonia di Camulodunum. Ma i piani dei romani dovranno scontrarsi con la determinazione dei Britanni, guidati da una figura in grado di incendiare i loro animi e condurli finalmente uniti alla guerra contro l’impero. La forza distruttrice di questo nuovo nemico metterà Catone e Macrone davanti a un pericolo che mai avrebbero potuto immaginare…
Melvill è allo stesso tempo una biografia, spesso inventata, un romanzo gotico popolato di fantasmi e un’evocazione dell’amore filiale, che racchiude tutto il talento, l’umorismo e l’immensa cultura del grande scrittore argentino.
Un padre morente, in preda alla febbre e al delirio, racconta la sua giovinezza, il suo Grand Tour, i palazzi veneziani popolati da figure affascinanti e malvagie, la sua rovina e il suo viaggio più bello: la traversata a piedi del fiume Hudson ghiacciato. Un figlio, ancora bambino, siede ai piedi del letto, ascoltando attentamente queste ultime parole allucinate. L’opera di Herman Melville, un autore magistrale che fu incompreso, troppo avanti rispetto al suo tempo e giudicato pazzo e pericoloso da alcuni critici dell’epoca, potrebbe avere la sua origine in questo ultimo lascito del padre? Rodrigo Fresán getta uno sguardo nuovo sull’enigma della vocazione letteraria, esplorando i meandri della narrativa, che oscilla costantemente tra realtà e immaginazione.
l mondo non sarebbe lo stesso senza J. Robert Oppenheimer, il fisico geniale al centro del Progetto Manhattan che ideò e poi consegnò ai militari Usa la forza devastante della bomba atomica. Di origine ebraica, Oppenheimer si era trovato fin da giovanissimo a collaborare con scienziati come Fermi, Einstein, Dirac, Born, Heisenberg e Pauli, ma mantenne per tutta la vita un profilo da irregolare, appassionato di storia romana e filosofie orientali, induismo e arte. Proprio questo spirito umanista lo allontanava dal gelido pragmatismo dello scienziato, che rischia sempre di farsi mero strumento del presente. Oppenheimer infatti aveva accettato di aiutare il governo americano a fermare l’orrore nazista, ma sapeva benissimo che le sue azioni avevano dissipato gli spettri della guerra solo per crearne di nuovi e più spaventosi – quelli dell’apocalisse nucleare, celati dietro il fragile mito della deterrenza. Questo libro raccoglie otto lezioni e conferenze tenute in ambiti diversissimi – di fronte a semplici studenti e generali, diplomatici e gente comune. La prima è del 1947, nell’immediato dopo-bomba, quando già Oppenheimer si batteva per creare un organo internazionale di controllo sulla proliferazione delle armi atomiche; l’ultima è del 1954, quando proprio per questo alacre lavoro di lobbismo diplomatico finì nel mirino del senatore McCarthy, sospettato di essere al soldo dell’Unione Sovietica. “Quando il futuro sarà storia” restituisce appieno i tormenti dell’uomo e dello scienziato, tra paure per il futuro e slanci utopistici sul ruolo della scienza nella società, sempre con la consapevolezza che sono gli esseri umani, e non gli stati, a costruire le basi del mondo che verrà.
All’annuncio dell’armistizio, divulgato radiofonicamente dal maresciallo Badoglio l’8 settembre 1943, segue rapidamente – in patria e all’estero – lo sfacelo del Regio Esercito. Da Milano a Roma, dalla Francia alla Jugoslavia sino all’isola di Cefalonia, i reparti italiani, lasciati senza direttive, sono esposti all’offensiva dell’ex alleato tedesco e oltre 750.000 tra soldati e ufficiali vengono catturati e deportati nei Lager del Reich. Di questi, solo una minoranza accetta di aderire alla Repubblica sociale italiana in cambio della libertà. Le esigenze dell’economia bellica nazista trasformano quella massa di uomini in forza lavoro coatta: «schiavi di Hitler» fino alla fine della guerra. Basandosi su diari, lettere e fonti d’archivio, Mimmo Franzinelli ripercorre la storia dolente della Resistenza senz’armi di quegli uomini sottoposti a condizioni terribili e per i quali verrà istituita la categoria di Internati Militari Italiani (IMI) per privarli delle garanzie internazionali previste per i prigionieri di guerra. Alle pagine di analisi storica, in cui vengono ricostruite le modalità di cattura di migliaia di giovani soldati, la loro odissea verso i campi di concentramento, le dinamiche collaborazioniste e la strategia «persuasiva» della RSI, subalterna alle esigenze dei nazisti, fa da contraltare la narrazione della vita quotidiana nei Lager in uno stato di privazione assoluta. A raccontare il proprio calvario sono i protagonisti stessi: uomini finora trascurati dalla storia, ma anche figure note, da Giovannino Guareschi a Mario Rigoni Stern. Corredato di una ricca bibliografia, con il censimento delle memorie di tanti internati, Schiavi di Hitler approfondisce anche la terribile realtà delle «stragi sconosciute», perpetrate in diverse località da militari tedeschi nella ritirata finale e ignorate nel secondo dopoguerra dalla magistratura militare italiana, in una negazione della giustizia di cui vengono esaminate ragioni e conseguenze. Ma l’opera di Franzinelli rappresenta soprattutto il doveroso omaggio ai tanti reduci dai Lager che, divenuti stranieri in patria ed esclusi per decenni dalla memoria collettiva, hanno ricevuto solo di recente un tardivo – e, per molti, postumo – riconoscimento del valore di quella loro Resistenza.
J.R.R. Tolkien è il creatore dell’universo fantastico della Terra di Mezzo ma prima ancora è stato grande conoscitore delle mitologie classiche, medioevali e moderne. Dopo il racconto delle gesta di Beowulf e La caduta di Artù, lo ritroviamo in questo libro alle prese con tre storie accomunate dal tema della perdita, tre gemme struggenti e meravigliose. Nella prima Sir Gawain e il Cavaliere verde Tolkien ci guida alla corte di re Artù a Camelot il giorno di Natale: il re non darà inizio al banchetto finché non avrà assistito a prodezze come è usanza. Un cavaliere imponente, con un’armatura verde della testa ai piedi, armato di un’ascia gigantesca lancia la sfida a tutti i cavalieri della Tavola Rotonda. Sir Gawain sa che la disfida significa morte certa ma è l’unico a farsi avanti. Scoprirà che in gioco non è solo la vita ma la purezza e la dignità del cavaliere. In Sir Orfeo Tolkien ci narra in chiave medievale un mito della classicità, la storia di Orfeo e Euridice, del loro amore più forte della morte, mentre in Perla racconta di un padre disperato che piange la perdita dell’amata figlia, scivolata via come una perla tra le dita. Tre drammi in versi, cesellati da Tolkien con maestria e pathos, restituiti splendidamente nella nuova traduzione di Luca Manini.
La vita dell’altro è il racconto inedito dell’amicizia molto speciale tra due giganti del Novecento. Joyce, irlandese abbastanza ribelle che arriva in Italia perché ama la lingua e la cultura italiana, ma anche per fuggire da un’Irlanda sotto il doppio giogo dell’Impero britannico e della Chiesa cattolica, e Svevo, un signore di mezza età, di origini ebraiche, che dopo anni in banca lavora nell’industria di vernici per applicazioni subacquee della famiglia della moglie. Joyce insegna inglese, e si distingue subito a Trieste per i suoi comportamenti poco ortodossi. Svevo, bonario uomo di famiglia, si accorge di lui e inizia a frequentarlo, prima da allievo, poi da amico. Dal loro incontro nasce qualcosa. Si scambiano gli scritti e ammirano le rispettive opere. Svevo aiuta spesso Joyce, sempre a corto di denaro, e questi ricambierà la sua generosità contribuendo a farlo diventare un caso letterario internazionale. Le loro storie si incrociano e ci parlano di un’amicizia profonda, non soltanto di affinità. E si intrecciano in un curioso entanglement anche le loro opere, capaci di dialogare da posizioni distanti su temi condivisi e segreti. La vita dell’altro è una storia non ancora raccontata, che mostra l’esistenza tra questi due mostri sacri del Novecento di un rapporto assai profondo, di un’affinità elettiva ma anche di una voglia di sostenersi a vicenda e guardarsi negli occhi per riconoscersi. Questa storia minima di due grandi racconta tramite eventi, resoconti, impressioni, incroci e simultaneità come le opere e le esistenze di Svevo e Joyce continuano a scrutarci oscuramente dal passato, con occhi attenti e divertiti, fissi sui nostri futuri.
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