Tra le tante antiche civiltà che la storia dell’umanità conosce, quella dei Pelasgi è sicuramente tra le più misteriose ed enigmatiche. Molte sono le ipotesi sulle loro origini e diverse sono le spiegazioni che gli studiosi danno sul loro nome, le loro fattezze e chi fossero in realtà, quesiti che ancora non hanno risposte certe. Tiziana Pompili Casanova compie una eroica ricerca in cui mette insieme tutte queste ipotesi, citando le fonti più autorevoli e riportando le voci dei sapienti come Erodoto da Alicarnasso (484-425 a.C.) in Storie, Omero nell’Iliade e nell’Odissea o Pausania (II secolo d.C.) in Periegesi della Grecia, solo per citarne alcuni. La sua analisi verte sul cercare di mettere ordine e districarsi tra le varie teorie, esaminandole dal punto di vista storico, filologico, mitologico e testuale, e lasciando spazio a nuove ricerche e nuove ipotesi. Il tema è talmente ampio che non si può esaurire in un solo volume e tante sono ancora le questioni lasciate in sospeso.
Ci dice Tiziana Pompili nel Capitolo I. L’argomento e il metodo d’indagine: “I Pelasgi, per me, sono la personificazione dell’eredità di una conoscenza che si è formata, diffusa e distrutta. Per quanto possibile, cercherò di tracciare il profilo ed individuare le impronte di quell’enigmatico popolo.”
Ma cosa sappiamo dei Pelasgi? Quali erano le loro caratteristiche? Anche in questo caso Tiziana Pompili Casanova mette insieme ciò che ha individuato nelle sue ricerche: “Anche l’aspetto fisico dei Pelasgi può essere delineato riunendo piccoli dettagli arguibili dai vari studi. Gli appartenenti al ceppo originale presumibilmente erano longevi, avevano un’altezza superiore alla media, la pelle bianca, i crani dolicocefali e gli occhi molto grandi dall’iride chiara, più probabilmente dalle sfumature azzurre; il naso era importante, dritto, con depressione naso-frontale poco profonda, […] I capelli, di colore generalmente chiaro, erano mossi, inanellati, spesso portati lunghi anche dagli uomini e raccolti in acconciature o fermati da nastri. Caratteristica distintiva degli uomini doveva essere la barba, anche piuttosto lunga, ma sempre curata come i capelli.”
La prima cosa ad attrarmi verso questo ambito di studi sono state le mura poligonali, spesso attribuite ai Pelasgi, e in generale i complessi megalitici. Quelle strutture che con le loro pietre enormi sembrano sfidare il tempo, costruzioni delle quali ancora oggi si discutono le epoche, i metodi di edificazione e spesso persino la loro funzione originale, non solo mi avevano incuriosito ma mi avevano suscitato grandi emozioni.
Negli anni ’80 abitavo ad Ancona e conobbi l’Ingegner Mario Pincherle, autore noto per le sue ricerche sulle antiche tecniche di costruzione, sulla paleotecnologia e molto altro. Fra i suoi libri, quello sui Pelasgi intitolato “E li chiamarono divini”, mi aveva conquistata e mi aveva lasciata con il desiderio di approfondire. Solo anni dopo però, grazie a Internet che permetteva l’accesso a testi antichi digitalizzati e rendeva più facilmente reperibili certi libri sul tema, iniziai una ricerca più organizzata e a raccogliere una serie di appunti con l’intento di scrivere un articolo. Invece è diventato un libro, con il quale per altro sono riuscita a sviluppare solo in parte il mio punto di vista sull’argomento.
Confesso che non amo la parola mistero, ne faccio un uso davvero parsimonioso. Secondo me nella nostra storia non ci sono veri misteri, piuttosto ci sono molti aspetti e lunghi periodi del nostro passato che, per motivi diversi, non siamo ancora riusciti a comprendere o a ricostruire. Ecco, i Pelasgi rientrano tra quelle realtà della vicenda umana che tuttora ci sfuggono; un mosaico in cui c’è sempre qualche tessera mancante o fuori posto. Purtroppo non abbiamo più memoria di chi siamo stati. Forse ciò che mi affascina di più è che nel tentativo di ricomporre verosimilmente l’immagine dei Pelasgi, posso contribuire a delineare la vera identità dell’uomo, quella che abbiamo fatto cadere nell’oblio insieme all’impronta del nostro cammino su questo pianeta.
Anche per l’approccio a questo tema sono grata a Mario Pincherle.
Gli Archetipi sono modelli universali al di là dello spazio e del tempo. Quindi, sono “prima di ogni cosa” creata nella realtà temporale. Sono espressioni di idee senza principio né fine. Sono le matrici, gli strumenti essenziali, le funzioni fondamentali con cui tutto ciò che esiste è stato edificato. Pincherle diceva che gli Archetipi “sono fatti di pensiero”. È, infatti, il pensiero che dà sostanza alle funzioni basilari della vita (funzione tagliante, comprimente, contenente, legante, etc). La materia invece dà sostanza alla forma, cioè all’insieme degli aspetti indispensabili per compiere efficacemente una precisa funzione (la forma che divide, la forma che schiaccia etc,). La forma però può assumere fogge e misure differenti, può essere fatta di materiali diversi, mentre ogni funzione rimane immutabile. Qualunque aspetto creativo dell’Universo può essere semplificato a tal punto da corrispondere a una delle innumerevoli combinazioni degli Archetipi. Questi sono un numero esatto e invariabile: 22, né più, né meno. L’intera creazione è frutto di 22 funzioni di base e di “dieci progressioni immateriali” (così è scritto nel SFR ISIRÉ o Libro dei Fondamenti) ovvero dieci modi di procedere, dieci criteri di combinazioni (sei condizioni nello spazio, due nel tempo e due nel ritmo).
Gli Archetipi comunicano direttamente alla nostra componente immateriale perché contengono un valore universale inalterabile, percettibile e comune a tutti gli esseri umani. Ogni Archetipo è conforme ad una lettera e al rispettivo suono. Ma agli Archetipi corrispondono anche a numeri, colori, gesti, posture. In breve, essi costituiscono il linguaggio primordiale ed universale inscritto nel DNA di tutte le popolazioni del mondo.
Ritengo che il linguaggio umano nacque facendo riferimento agli Archetipi perché sono organi/strumenti della psiche prerazionale. E altrettanto mi convince l’idea che le stesse idee-matrici siano state anche il principio all’origine dell’alfabeto. Quando? In un tempo difficile da definire, di certo antecedente al “Diluvio”, un tempo in cui ogni cosa era chiamata col suo Vero Nome e l’uomo accedeva spontaneamente alle idee eterne fuori dallo spazio-tempo poiché le sue componenti Emozionale, Razionale e Mentale formavano una essenza coscienziale indivisa.
Oggi un alfabeto è solo la trascrizione fonetica di un sistema di scrittura convenzionale. I segni dei nostri alfabeti esprimono dei contenuti solo quando sono uniti tra loro. Separati gli uni dagli altri non dicono niente, sono segni vuoti che generano parole vuote, parole che non risuonano nella realtà atemporale. Non era così in origine. E io penso ne abbiamo traccia, per esempio, nello lo stadio più remoto dell’Indoeuropeo che sembra essere ciò che rimane di una eredità linguistica più remota. Mi spiego meglio. I suoni e i segni delle lettere dell’alfabeto proto-Indoeuropeo, presi singolarmente avevano un valore semantico ben preciso. Ogni singola lettera aveva un senso compiuto, determinato, completo. Quindi i nomi assegnati alle cose, alle azioni, alle emozioni etc, non venivano originati in modo ingiustificato senza riscontri oggettivi, bensì unendo secondo precise regole associative, due o più idee-base rappresentate dai suoni delle consonanti e delle vocali. Ogni parola nasceva quindi come frutto di un ragionamento in modo da poter definire almeno uno dei caratteri essenziali dell’oggetto o dell’azione che voleva descrivere. Questa concezione sul proto-Indoeuropeo non è mia, è di Franco Rendich, un docente di Sanscrito della Ca’ Foscari, scomparso pochi anni fa, il solo ricercatore che abbia indagato l’antica lingua delle popolazioni indoeuropee con questa prospettiva d’osservazione. Dal mio punto di vista le teorie di Rendich sono sovrapponibili alla descrizione del linguaggio originario umano generato sugli Archetipi. Così mi è venuto spontaneo supporre che la protolingua delle genti euroasiatiche, rappresentasse un resto della antica Lingua Vera, l’originale lingua dell’uomo, quella in cui i suoni e segni corrispondevano alle funzioni e le parole erano “costruite” mettendo insieme la serie di funzioni essenziali “nascoste” dietro un oggetto, un’azione, un’emozione.
La tradizione vuole che i Pelasgi siano stati i primi a servirsi dell’alfabeto, ma non sappiamo che lingua parlassero. Erodoto la definisce Βάρβαρος, letteralmente straniera, balbettante. La descrizione sembra corrispondere a una lingua sillabica (quindi non flessiva, ovvero con unità minime che hanno un significato). Questo intuitivamente ci riporta a tutto quanto abbiamo detto poc’anzi.
In base ai miei studi e attenendomi alla terminologia ancora in uso corrente, posso dire che alcuni aspetti dei Pelasgi parrebbero collegarli ad una etnia di tipo semitico; al contrario, altri elementi suggerirebbero più una loro appartenenza al gruppo indoeuropeo. Di fatto sono queste due opinioni differenti che emergono principalmente dagli studi sul sostrato linguistico antecedente agli Elleni. Questo invece a me fa pensare ad una origine dei Pelasgi anteriore alla differenziazione delle varie culture, gruppi conservati per lungo tempo con il loro linguaggio originale in un territorio ristretto. In estrema sintesi, gli indizi sembrerebbero suggerire che i Pelasgi possano essere il relitto di una civiltà antecedente a quella attuale. Dimostrarlo però non è cosa da poco, soprattutto perché l’idea di una civiltà precedente alla nostra è nettamente respinta dall’ortodossia accademica. Quindi gli studi scientifici accademici, a cui spesso facciamo riferimento anche noi ricercatori indipendenti, mancano di una prospettiva di osservazione della nostra storia che tenga conto di questa possibilità. Ma molte cose del nostro passato non quadrano, per cui confido che prima o poi la verità venga alla luce in modo schiacciante.
La relazione dei Pelasgi con i territori nordici è un’ipotesi che ho considerato seriamente. Una serie di analisi etimologiche mi ha portata a fare comparazioni con gli Asi, o Æsir in lingua norrena, e conseguentemente con i Vanir, i due gruppi divini della mitologia nordica narrata da Snorri Sturluson nell’Edda. L’opera raccoglie una tradizione orale che, secondo lo storico delle religioni Dumézil, rispecchia la più antica concezione mitica di stampo indoeuropeo. E se la mitologia norrena affonda le radici nel più remoto pensiero di impronta indoeuropea, altrettanto la lingua indoeuropea denota una formazione molto antica.
Addirittura, lo storico e saggista contemporaneo Paolo Galloni ritiene che la diffusione dei gruppi umani parlanti lingue proto-indoeuropee sia da retrodatare al Paleolitico, ma la maggior parte dei linguisti non si spinge così lontano. Tuttavia, i riferimenti astronomici presenti nei Veda, ci permettono di affermare con sicurezza che la forma orale dei testi sacri delle popolazioni arie dell’India era già ben strutturata oltre sei millenni fa, il che fa pensare a genti tutt’altro che primitive. I Veda raccontano che circa nel 4500 a.C. aveva avuto luogo l’equinozio di Primavera nell’asterismo di Mṛigashiras, il quale corrisponde a parte della costellazione di Orione per noi. La civiltà che ha concepito gli Inni vedici, però, deve essere stata di molto precedente al 4500 a.C. Altre indicazioni contenute negli stessi testi vedici suggeriscono che la patria primordiale degli antichi pre-indoeuropei si trovava in ambiente artico ed in un periodo interglaciale dalle temperature miti. Quindi considerando tutto, dovremmo parlare di popoli che risalgono almeno all’8.000 a.C.
Avverse condizioni ambientali sopraggiunte, costrinsero poi quelle genti a migrare (un movimento iniziato probabilmente intorno al 5000 a.C., quindi erano già in viaggio quando descrivono l’equinozio di cui sopra) in luoghi dove il clima era meno proibitivo. Sembrerebbe quindi che, da una antica dimora nordica, alcune tribù di pastori nomadi e di agricoltori, separate dal ceppo originale e guidate da caste sacerdotali e (forse) guerriere, più tardi giunsero a stabilirsi nella penisola balcanica e nelle isole egee, là dove la tradizione classica testimonia la presenza dei Pelasgi indicandoli vagamente come “molto antichi”. È in questa area geografica che fu creato l’appellativo Pelasgi, quale nome in origine attribuissero questi popoli a sé stessi, non lo sappiamo.
“Immagine tratta da “ORIONE a proposito dell’antichità dei Veda” di Lokamanya B.G. Tilak (ECIG ed., 1991), la più recente versione italiana del volume pubblicato in inglese nel 1916). L’asterismo di Mṛigrashiras era visto dai popoli arii come una testa di antilope con una freccia conficcata in essa. Le tre stelle della freccia corrispondono alle tre stelle della “cintura” della costellazione di Orione. Le rimanenti stelle che compongono Mṛigrashiras, rispettivamente coincidono: due a quelle che sagomano le ginocchia di Orione e una è quella che configura la sua spalla sinistra.”
Continuerò a fare la “pioniera” nei territori della preistoria, cercando la verità, studiando ed esprimendo le mie idee, inventandomi quell’audacia che di carattere non ho. Sto lavorando ad un libro (è già a buon punto) che sviluppa uno specifico argomento sempre inerente al tema dei Pelasgi. Un libro a cui ho voluto dare la precedenza prima di riprendere la stesura del secondo volume di “PELASGI STIRPE DIVINA”, che avevo già iniziato e che avevo dovuto lasciare da parte per vicende personali.
Con Biagio Russo e Paolo Navone partecipo alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”, uno spazio divulgativo in cui posso affrontare temi diversi, sempre legati alla preistoria, e mi permette uno scambio di vedute con ricercatori che stimo e ritengo scrupolosi. Alcuni miei articoli sono invece ospitati sul blog di Monica Benedetti, una scrittrice eccellente e acuta ricercatrice indipendente con la quale collaboro da tempo. (https://www.iomonicabenedetti.com/)
Se volete seguire gli studi di Tiziana Pompili Casanova potete iscrivervi nel gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”.
Vi aspetto al prossimo appuntamento con la rubrica Incontri con la storia ogni martedì su miei canali social!