Quando i libri ti risuonano dentro lo senti subito. Accarezzi la copertina, ascolti lo scricchiolio delle pagine, ne annusi la fragranza, poi, con grandi aspettative, leggi l’incipit, e in quel momento capisci che tutti i sensi sollecitati precedentemente non si sono sbagliati: quello è un testo che ti lascerà qualcosa dentro, qualcosa che porterai sempre con te. Erika Maderna, saggista, laureata in Lettere classiche con indirizzo archeologico all’Università degli Studi di Pavia, ripercorre le tappe dell’evoluzione della cultura medica ed erboristica femminile, concentrandosi su quello che lei giustamente definisce un nodo centrale, ovvero la stregoneria. «La conoscenza della natura è il filo che lega le figure del mito alle biografie storiche di donne accusate di praticare una medicina intrisa di paganesimo e magia, e per questo perseguitate.» La bellissima edizione abbellita da immagini a colori è un saggio ricco, dettagliato, avvincente, che non vuole solo raccontare un percorso millenario attraverso testimonianze, fonti classiche e moderne, e storie di streghe curatrici, vuole condurci al fulcro del tema con il ragionamento, ma soprattutto con il cuore. Emblematica è la frase che troviamo a p. 17.
Nel tempo e nella feroce contrapposizione di genere è stata consapevolmente seppellita la memoria di una scomoda verità: la strega non è che una sacerdotessa dimenticata, il rifiuto del suo archetipo più nobile.
Trovo molto interessante osservare la labilità del confine che ha determinato la rappresentazione del femminile santo rispetto a quello stregonesco. Sembra paradossale, eppure la storia ci ricorda di casi di grandi sante fatte oggetto di attenzione da parte dell’Inquisizione (per esempio Caterina da Siena e Teresa d’Avila), oppure addirittura finite al rogo e solo a distanza di secoli riabilitate come fulgidi esempi di santità, come nel caso di Giovanna d’Arco, che è solo il più eclatante. Cosa ha determinato questa mancanza di lucidità di giudizio? Esiste un effettivo orizzonte comune, tra il femminile idealizzato e quello demonizzato, tra il sacro e il sacrilego?
Piero Camporesi diceva che “la strega è una santa, a suo modo, di segno diverso”; a mio parere, proprio in questo gioco delle polarità contrapposte è possibile riconoscere una traccia comune, quella che riconduce la santa e la strega alla loro originaria funzione sacerdotale. La dicotomia che si è generata fra queste due figure già in epoca precristiana è il frutto del deterioramento della primitiva rappresentazione di un femminile sacro integro, portatore dell’ambivalenza fra luce e ombra: infatti, la coscienza di quello sdoppiamento, che per molti secoli ha gettato ombre funeste sulla reputazione delle donne, operava già pienamente nella cultura greca. In seguito, con l’approfondirsi di una visione dualistica, la santità è venuta a coincidere con la scelta di un rapporto di alleanza con le forze del bene, mentre la stregoneria con il suo contrario. Per le donne si è trattato allora di compiere una scelta di campo: accettare la subordinazione sociale, l’annullamento nel sacrificio e nella rinuncia, oppure l’eresia, la deviazione dottrinale, l’adesione a forme di esistenza considerate non allineate, sovversive, nel tentativo disperato di liberarsi dalle catene dell’ignoranza. Essere inglobate nel sistema oppure perseguitate.
Le “fenomenologie” – se così si possono definire – della sanità e della stregoneria presentano interessanti coincidenze. Per esempio è rilevante il tema del corpo sofferente, espresso fra martirio e supplizio, o le estasi e le levitazioni delle sante contrapposte alle visioni profetiche e ai voli delle streghe; o ancora, il miracolo e l’incantesimo, come discrimine per categorizzare la donna nell’una o nell’altra schiera. Naturalmente, sotto l’occhio di esaminatori uomini, che fossero teologi o inquisitori. Perché sempre a uomini è spettato il compito di discernere un rapimento mistico da una possessione diabolica, di stabilire quale fosse santa e quale strega.
La medicina accademica, di appannaggio maschile, delle pratiche femminili temeva il forte orientamento rituale, che in epoca cristiana coincideva pericolosamente con il retaggio di un paganesimo difficile da sradicare. Quella femminile era una medicina magica, fatta di erbe e parole, divinazione, formule e riti tramandati per via orale, di voce in voce, attraverso le generazioni. Inoltre, si trattava prevalentemente di saperi orientati alla sfera generativa, il che prevedeva anche il ricorso e l’abuso di pratiche proibite dai canoni ufficiali, quali la contraccezione, l’aborto, il controllo sulla sfera amorosa e sessuale.
Nel contesto di una piccola comunità, una semplice empirica, levatrice o medichessa, poteva rivelarsi una concreta antagonista del medico condotto. Gli orizzonti della medicina dotta e di quella empirica si fronteggiavano rivelandosi mondi apparentemente privi di scambio. Lo studio accademico era astratto e formale, deduttivo e non sperimentale; al contrario, le consuetudini delle donne si nutrivano di contatto fisico, sperimentazione e umana partecipazione, e spesso risultavano più comprensibili alla gente comune. In molti casi il buon senso si mostrava più risolutivo delle sussiegose formulazioni libresche. È realistico supporre che per molto tempo l’offerta di approcci terapeutici diversificati si sia combinata in un reciproco adattamento. In seguito, con la nascita delle università, il sistema ufficiale si impegnò a rinforzare la rete di protezione creata intorno ai suoi operatori, compiendo precisi distinguo tra la medicina dotta e le superstizioni di quelle che erano considerate fattucchiere e ciarlatane. Il grande patrimonio di conoscenze femminili continuò a nutrirsi del contributo di una presenza reale delle donne all’interno delle comunità, che rimase però privo di riconoscimento, depauperato e disconosciuto, spesso praticato nella clandestinità.
Penso soprattutto a Tertulliano, che ha contribuito alla diffusione di una visione estremamente misogina, e che fu l’ideatore di un vero e proprio manifesto antifemminista, nel quale la donna è descritta come fonte di tentazione, motivo di perdizione, specchio di tutti i vizi. A lui appartiene la tristemente nota locuzione che definisce la femmina “porta del demonio” (diaboli ianua), formula premonitrice di dolorosi presagi. Anche la Bibbia forniva importanti presupposti teorici: “non lascerai vivere la malefica”, decretava uno dei fondamenti delle leggi morali disposte dall’Esodo.
Inoltre, la demonizzazione delle preparazioni erboristiche in quanto presunte opere del diavolo, portata avanti, fra gli altri, anche da sant’Agostino, e la successiva condanna delle prassi dell’incantare herbas sancita dal Concilio Bracarense nel 572, avrebbero gettato ampio discredito sulle pratiche magiche delle donne, con tutto il loro carico di tradizioni relative ai riti di raccolta e di preghiera, dal forte sapore pagano. Infatti, poiché l’esercizio delle arti magiche apparteneva per tradizione all’esperienza delle donne, la condanna dell’una trascinò queste ultime in un vortice di riprovazione, nel quale le curatrici popolari, isolate e screditate, non potevano che soccombere. L’evidente relazione tra magia e saperi farmacologici era talmente serrata da costituire parte stessa della questione “stregoneria”.
Le piante della farmacopea femminile hanno una tradizione antichissima. Si tratta di erbe il cui uso è stato tramandato per secoli. Con ogni probabilità, è grazie alla modalità della trasmissione orale che pratiche e ricette sono rimaste inalterate a lungo, in quanto passate di voce in voce attraverso formule, cantilene, rime, conservando forti tratti rituali nella ripetizione di gestualità antiche. Le erbe medicinali menzionate nei testi di Teofrasto, Plinio o Dioscoride, ma anche quelle citate nelle storie mitologiche come retaggio sapienziale di figure quali Medea o Circe, sono le stesse che ritroviamo molti secoli più tardi in contesti di riferimento diversissimi; per esempio, nelle carte dei processi inquisitori che hanno visto coinvolte levatrici e medichesse.
Tali piante finirono per essere inglobate nella stessa rappresentazione ambivalente della figura della guaritrice, caratterizzata dalla capacità di attingere alle risorse del mondo naturale per curare le malattie o per compiere malefici, a sua discrezione. Secondo questo paradigma, era dunque possibile identificare una categoria di “erbe stregone”, ovvero piante dalle proprietà psicotrope e potenzialmente letali, quali il colchico, la belladonna, la cicuta, la mandragora o l’elleboro nero: erano le cosiddette “piante del volo”, dai cui succhi si credeva che le presunte streghe preparassero un unguento che permetteva la metamorfosi in animale, o il potere di animare un oggetto in volo per farsi trasportare nei luoghi dei sabba.
Ma ricchissimo è anche l’erbario di piante dalla virtù più dolce e dalla solida tradizione medicamentosa, che potremmo chiamare “erbe sante”: l’artemisia, la salvia, l’iperico, la camomilla, la malva, la ruta. Erbe spesso utilizzate in medicina ginecologica, oltre che per curare le malattie della pelle, degli occhi o dello stomaco, e dunque considerate “femminili”. Anche dell’utilizzo di queste ultime è attestata dalle fonti una tradizione ininterrotta, dall’epoca classica all’età moderna.
Ogni ricerca che ho condotto negli ultimi anni su questi temi ha aperto una porta sulla possibilità di una nuova esplorazione. La storia delle donne è ancora in gran parte sconosciuta, e dobbiamo porre rimedio a questo odioso anonimato, impegnandoci a riportare a galla le fonti sommerse, i segni di esistenze nascoste fra documenti d’archivio non ancora considerati. Le tracce sono ovunque, e quelle voci chiedono di essere ascoltate. Nello specifico del campo di indagine delle mie ricerche, relativo alla medicina e alla cura, le possibilità di approfondimento sono altrettanto aperte, e sto cercando di coglierne le risonanze più vicine alla mia sensibilità. Dunque sì, qualcosa bolle in pentola (o ancora meglio nel calderone magico), ma per scaramanzia dirò solo che mi cimenterò nel tentativo di “portare alla luce” nuove testimonianze. In fondo, da sempre portare alla luce è cosa da donne…
Erika Maderna, laureata in Lettere classiche all’Università degli Studi di Pavia, vive a Grosseto. Scrive articoli e saggi di cultura classica, collaborando con diverse testate, ed è spesso chiamata ad intervenire in convegni universitari. Per Aboca Edizioni, ha approfondito due principali filoni di ricerca: il primo, relativo ai simboli e alle mitologie botaniche, mentre il secondo ripercorre gli antichi saperi delle donne in medicina, dalle figure dell’immaginario alla storia. Per Aboca Edizioni ha pubblicato: Aromi sacri, fragranze profane. Simboli, mitologie e passioni profumatorie nel mondo antico (2009), Medichesse. La vocazione femminile alla cura (2012), Le mani degli dèi. Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco (2016), Per virtù d’erbe e d’incanti. La medicina delle streghe (2018) e Con grazia di tocco e di parola. La medicina delle sante (2019).
RIFERIMENTI
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Della stessa autrice ho già recensito “Medichesse. La vocazione femminile alla cura” che trovate a questo link!
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