«Dobbiamo essere gentili in questo mondo oscuro».
Immaginate un mondo in cui Asti è il centro del mondo. Immaginate un vecchio libro su cui ogni possessore ha lasciato tracce di sé: disegni, commenti, locandine, le regole di un gioco esistenziale inventato da Mary Shelley e dalla sua cerchia, l’indirizzo di uno sfuggente Ufficio delle redenzioni. Immaginate un ragazzo, Arturo Saragat, oppresso dal rimorso per non aver saputo opporsi al male quando sarebbe stato necessario, che a quel libro si affida per riorientarsi nella vita, smarrendosi invece ancor più. Immaginate una Storia in cui Mussolini non è stato fucilato ma ha finito i suoi giorni in esilio, allevando asini a Pantelleria. Poi immaginate nostalgici rievocatori del fascismo, un console maniaco del golf, una lobby di dentisti assassini, sette eretiche, mariachi, terre esotiche e terre desolate, chiromanti, una fabbrica di meravigliosi globi miniati e una donna ultracentenaria dal fascino struggente. È solo una piccola parte di quello che troverete in Digressione.
Dall’autore rivelazione di Ferrovie del Messico, un infinito, vertiginoso romanzo di formazione, d’amore e di avventura che ci restituisce una visione a volte compassionevole, a volte insostenibile, del nostro tempo.
Digressione è un romanzo che vuole raccontare, nientemeno, «tutto ciò che esiste, più una parte cospicua di ciò che è esistito e non esiste più, di ciò che esiste pur non essendo mai esistito, e di ciò che non esiste, non è mai esistito e mai esisterà»; e naturalmente, per fare questo, tenta di usare tutte le parole che esistono, più una parte cospicua di quelle che sono esistite e non esistono più, di quelle che esistono pur non essendo mai esistite, e di quelle che non esistono, non sono mai esistite e mai esisteranno. Come nella famosa intro dei Simpson in cui l’intero universo e l’intera storia dell’universo precipitano in un’unica molecola della pelle della zucca gialla di Homer; come in quell’accenno di Borges ai collegi dei cartografi che, insoddisfatti di aver disegnato mappe di singole province estese quanto un’intera città e mappe dell’impero estese quanto un’intera provincia, crearono una mappa dell’impero che dell’impero aveva la stessa estensione e con l’impero coincideva esattamente; come nel racconto di Arthur C. Clarke in cui la compilazione della lista dei nove miliardi di nomi di Dio, affidata da certi monaci tibetani a un supercomputer, provoca la fine del mondo, con i nove miliardi di stelle del cielo che si spengono a una a una: così in questo romanzo l’universo poético y pintoresco immaginato da Gian Marco Griffi fin dai suoi primi libri, ed esploso come un big bang narrativo in Ferrovie del Messico, continua inarrestabilmente a espandersi e a moltiplicarsi, viaggiando a forsennata velocità verso i limiti della letteratura. Tutto è Digressione, e Digressione è tutto; poiché, come dice Calixto Escalera Del Pilar, «laberintero inmortal», la vita stessa altro non è che «un’immane digressione nel tragitto che dal grembo materno conduce spietatamente alla tomba».
Greta Bertella e Giulio Mozzi
Hitopadeśa è una raccolta di favole, novelle e apologhi, ed è uno dei capolavori della letteratura sanscrita.
L‘opera fu composta nell‘India nordorientale, tra il IX e il XIV secolo. Malgrado l‘origine popolare di molte favole, “Hitopadeśa”, come già il “Pañcatantra”, è un testo dotto e raffinato, destinato a un pubblico di corte. Un grande saggio accetta l‘incarico offertogli da un sovrano di insegnare ai suoi tre figli – sprovveduti e indolenti e che pensano solo ai piaceri – la scienza politica e l‘arte di raggiungere il successo mondano. L‘insegnamento è esposto in quattro libri, ognuno introdotto da un racconto cornice. Si susseguono così favole, racconti e frasi tratte dal tesoro letterario ancestrale dell‘India. Storie che spesso hanno come protagonisti gli animali, ma che danno risposte astute e pragmatiche a una serie di situazioni, problemi e dilemmi molto umani.
«Ho seno, collo e spalle di grande bellezza. La pettinatura (di un castano chiarissimo, bionda al tempo della mia infanzia), composta di lunghissimi boccoli che ricadono sulle tempie, velano le gote e scendono fino alle spalle, mi attira molti complimenti. Ho la fronte alta, ben fatta, molto espressiva, le sopracciglia folte e finemente disegnate, gli occhi azzurro cupo, grandi, bellissimi quando ardono al fuoco del pensiero e delle sensazioni». Ecco l’autoritratto che Louise Colet consegna al suo diario, il 14 giugno 1845. Un anno dopo, tra questa donna e Gustave Flaubert nasce una relazione, tenera e tempestosa. Ventiquattrenne, «di una bellezza eroica», Gustave trova in Louise «la sola donna che ho amato e che ho avuto». Trentaseienne, già amante del filosofo Victor Cousin, Louise crede, romanticamente ostinata, alle ragioni del cuore. Sono entrambi scrittori, l’una di qualche fama, l’altro appena agli inizi. Sono entrambi legati a un nucleo familiare, lei a un marito e a una figlia, lui a una madre. La loro vicenda è un ininterrotto tentativo di trasformare gli equilibri tra la «generosità» di un grande amore che diventa per Louise il centro della vita, e l’«avarizia» di un amore che per Gustave ha un posto ben definito tra gli affetti, le amicizie, i progetti di viaggi esotici e il sogno d’Arte che ne domina l’esistenza. Agli slanci dell’amica, Gustave oppone la riserva dell’amato, la malinconica autosufficienza del prigioniero volontario. Alle sofferenze, alle rappacificazioni, alle accuse, all’addio seguirà il silenzio; placate le tensioni, la relazione riprenderà poi in un altro tono e con altri ruoli: sarà un artista compiuto che dettaglia alla sua confidente i lineamenti di una nuova estetica che si sta incarnando in uno «scandaloso romanzo», “Madame Bovary”. Di questa storia d’amore le lettere mostrano giorno per giorno la traccia fresca. Ed è una traccia che ci rivela uno scrittore che ha fatto dire ad André Gide: «Se l’opera intera di Flaubert dovesse essere messa su un piatto della bilancia, la sola Corrispondenza, gettata sull’altro, la supererebbe; e se mi fosse permesso di conservare soltanto l’una o l’altra, io sceglierei quest’ultima».
Muovendosi con perizia e con l’ausilio di una penna raffinata, Alessandra Celati ci trasporta nella concretezza delle vite di queste donne che creano disordine, tra processi, fughe, tradimenti, ma anche forme di creatività dottrinale, autoaffermazione e solidarietà.
Un mosaico sorprendente di storie femminili di eresia, portate alla luce attraverso un minuzioso lavoro d’archivio e raccontate con uno stile non convenzionale. Caterina Colbertalda era una donna illetterata e povera che viveva e lavorava a Venezia. Caterina era anche un’eretica, che si inserì per venticinque anni nelle tortuose trame del movimento ereticale del Cinquecento, con un coinvolgimento progressivamente sempre più totalizzante, dal punto di vista della sua spiritualità e della sua esistenza in generale. A partire dalla ricostruzione di questa vicenda e della rete clandestina in cui Caterina fu attiva, il libro indaga la parabola dell’eresia femminile tra storia della Riforma in Italia, microstoria, storia sociale e di genere.
Narratore inatteso di questo romanzo barocco è il potente quadro venuto dall’atelier di Tintoretto che racconta con voce lucida e insolente gli intrighi di una Napoli sublime e sorprendente in cui Artemisia è al centro della scena.
Napoli, 1630. All’ombra del Vesuvio, un convoglio avanza misteriosamente. Uno dei carri trasporta uno splendido dipinto, mentre il marchese Paladini, il nuovo proprietario del quadro, si compiace all’idea di essere presto a casa e poterlo contemplare in silenzio. Non sa però che Artemisia Gentileschi, pittrice talentuosa e provocatrice, appena arrivata in città, sta per trascinarlo in un vortice di colpi di scena. Un inquisitore senza scrupoli, colleghi invidiosi, catastrofi naturali e rivolte popolari. Insieme, affronteranno i mali della loro epoca e condivideranno le passioni di una vita animata dall’arte.
Quando il coraggiosi unisce al mistero, nasce la leggenda.
Dall’autore di Il diavolo nella cattedrale.
«Schätzing è davvero abile nel mescolare intrighi, storia, suspense e nel creare personaggi umanissimi.» – Westdeutsche Allgemeine Zeitung
«Un vero gioiello.» – Aachener Zeitung
«Uno scrittore audace. Non capita spesso di poterlo dire di autori bestseller che vendono milioni di copie.» – il venerdì di Repubblica
«Un autore che vende milioni di copie scrivendo cose intelligenti.» – La Stampa
«Tutto quello che Frank Schätzing tocca diventa oro.» – la Repubblica
1263. È notte fonda quando la nave si avvicina di nascosto alla costa inglese, carica di soldati pronti a unirsi alla guerra civile che sta devastando il Paese. Dal ponte, Jacop cerca la luce che dovrebbe indicare il luogo sicuro dove attraccare, tuttavia trova solo il bagliore delle fiamme e il boato delle palle di cannone. E l’ombra oscura di un rapace che cala su di loro. Tre anni prima. Jacop ne ha fatta di strada, passando da vagabondo e ladruncolo a rispettabile mercante, grazie all’aiuto del suo mentore Jaspar, un astuto sacerdote con un’insaziabile passione per la scienza. Eppure, non importa quanto viaggi lontano, i suoi pensieri tornano al giorno in cui ha trovato la sua famiglia trucidata e la fattoria distrutta dal fuoco. E alla persona che era emersa dal fumo, una donna bionda accompagnata da un immenso rapace. La stessa enigmatica figura che adesso sembra essere ricomparsa alla guida di un manipolo di mercenari scozzesi. Determinato a fare luce sul suo passato, Jacop decide di seguirne le tracce, anche a costo di farsi coinvolgere in una cospirazione che vede i baroni inglesi tramare per rovesciare re Enrico III e abolire la monarchia assoluta. Perché quella guerriera è l’unica depositaria di una conoscenza da cui dipendono non solo le sorti di Jacop, ma anche del mondo intero. Un appassionante romanzo storico che ci trasporta in un’epoca affascinante e tutt’altro che buia, tra sconvolgimenti politici e ambizioni brucianti, epiche battaglie e fughe rocambolesche, duelli feroci e amori che superano ogni ostacolo.
Il luminoso esordio di una giovane scrittrice. Un romanzo familiare che attraversa un secolo di Storia con la leggerezza di una scrittura delicata e toccante.
Campania, fine Ottocento. La Piccerella, ingenua e credulona per natura, lavora a servizio presso un’aristocratica famiglia napoletana, in cui il padrone, detto Mascariello, e anche suo figlio, soprannominato Zufolo, approfittano ripetutamente della sua innocenza con il benestare della moglie del primo, la Libbardèra, da sempre al corrente dei tradimenti del marito. Tutto cambia quando la ragazza scopre di essere incinta, senza che si conosca l’identità del padre. La Libbardèra, così, decide di relegarla in casa di una mammana, dove la Piccerella metterà al mondo il piccolo Orlando, candido e buono quanto sua madre. I due per un po’ si terranno lontani ma pian piano riusciranno a tornare nella casa dei padroni, dove Orlando crescerà fino a diventare uomo. La mammana spera per lui un futuro migliore, ma i suoi sogni s’infrangono quando Orlando incontra la misteriosa Luisa, figlia di girovaghi e capace di sentire voci in grado di captare la malasorte. Come in una filastrocca, le vicende di questa famiglia continuano a dipanarsi seguendo un ciclo naturale destinato a procedere nonostante i rivolgimenti della Storia. Come un albero genealogico che si svela davanti agli occhi di chi legge, la narrazione procede spedita, sorprendendo il lettore a ogni svolta. Un libro di straordinaria potenza narrativa, ricchissimo di storie e personaggi. Un romanzo di autentica bellezza in cui si incrociano i destini di figure indimenticabili e in cui ricordo intimo, magia e superstizione si mescolano per un racconto quasi epico da tramandare di generazione in generazione.
Nanu è un ragazzino con incredibili abilità di calcolo, ma non ha mai partecipato all’importante trofeo di matematica riservato ai migliori studenti della sua scuola per colpa del professore Geronimo Vega, che ce l’ha con lui. Qualcosa però sta cambiando: un altro insegnante riesce a inserirlo nella squadra di calcolo. Così non solo renderà fiero suo padre, ma potrà accedere alla borsa di studio e aiutare il nonno, con cui vive. Quando dall’aula di scienze sparisce la testa di Cartesio, il teschio utilizzato per le lezioni di anatomia, Nanu e i suoi amici iniziano a indagare. Scopriranno un mondo adulto ostile e minaccioso, fatto di complotti, riti diabolici e cospirazioni. Ma Nanu scoprirà anche di non essere solo ad affrontare il pericolo: esistono ombre che, anziché minacciare e impaurire, sanno vegliare e proteggere… Età di lettura: da 11 anni.
In una landa flagellata da una letale carestia, un principe rinuncia agli agi di corte per mettersi alla ricerca di mitici semi che potrebbero sfamare il suo popolo. Lungo la strada incontrerà orrori indicibili, trappole mortali e persone ostili, ma anche il germe di una flebile speranza in un futuro migliore. Scritto e disegnato magistralmente nel 1983 dal Maestro Hayao Miyazaki in persona e rimasto inedito fuori dal Giappone fino ai giorni nostri, questo volume ha il respiro e l’epica di un lungometraggio, e la trama si dipana lungo tavole spettacolari ed evocative, autentica cinematografia su carta. Questa edizione, brossurata con sovraccoperta, ha lo stesso esatto contenuto dell’edizione cartonata.
L’amore di Primo Levi per la montagna e per l’alpinismo emerge timidamente dalla sua biografia: altri e più drammatici episodi l’hanno infatti segnata in maniera indelebile. Ma era quella una passione sincera e in un certo senso salvifica. Negli anni dell’università Levi saliva in montagna principalmente con due amici, nonché compagni di studi: Sandro Delmastro e Alberto Salmoni. Pietro Lacasella si è spinto tra le montagne su cui arrampicarono, visitando i paesi dove andarono in villeggiatura, le valli che attraversarono in bicicletta e gli alpeggi dove si rifugiarono dopo l’8 settembre del 1943. Il risultato è un viaggio alla scoperta di un lato meno raccontato di Levi, un viaggio che si è concluso quando, con lo scorrere dell’anno, le giornate si sono fatte troppo corte. Un viaggio, anche, nel mondo delle ipotesi: non di tutte le avventure in montagna di Levi conosciamo i dettagli, e quindi dobbiamo affidarci al risultato di deduzioni e ragionamenti che, a loro volta, nascono da letture, ricerche e sopralluoghi. Dal tornare a ripercorrere i passi di Primo Levi.
«Senza nozze, senza figli, senza patria, senza amore», la definisce Euripide. Ed è forse proprio questo suo essere al di là di ogni schema, in un’epoca di grandi fermenti, a rendere Ifigenia ancora oggi particolarmente interessante, rivelatrice di una realtà sociale che nel mito si rispecchia
«La vita di un solo uomo vale quella di mille donne». È la terribile sentenza che Euripide fa pronunciare a Ifigenia, estrema sintesi di una tragedia personale e collettiva, la cui eco arriva anche a noi. Primogenita di un re potente, sembra avviarsi verso un luminoso futuro, fin quando la guerra non cambia tutto, portandola a vivere vite che non ha scelto in luoghi che mai avrebbe raggiunto altrimenti. Dopo il successo di “Maledette”, Francesca Ghedini prosegue la sua indagine alle radici dell’immaginario occidentale. Questa volta oggetto della sua riflessione non sono protagoniste di stirpe divina, ma una donna sacrificata sull’altare della ragion di stato e dell’ambizione paterna. Seguendo le varie fasi di una storia a cavallo tra regioni e secoli diversi, ci fa compiere un viaggio tra le mille sfaccettature della cultura greca. Se l’Ifigenia educata nel palazzo di Micene è espressione del mondo omerico, quella esiliata in Tauride rievoca una civiltà misteriosa, mentre alla raffinata società ateniese rimanda la sacerdotessa che, nel santuario di Brauron, prepara le giovani a diventare spose e madri. Come in un romanzo, nel racconto dei gesti e delle parole di Ifigenia rivivono i rapporti tra l’universo maschile (il padre Agamennone, lo sposo promesso Achille, il fratello Oreste) e quello femminile (la madre Clitennestra, la zia Elena, la sorella Elettra), nella sapiente fusione tra le fonti letterarie e un vasto patrimonio di immagini.
Oggi, di fronte a linguaggi artificiali capaci di simulare la parola umana, si impongono interrogativi radicali: che cosa distingue ancora l’umano? Possiamo immaginare un futuro in cui si comunica senza parole (ad esempio attraverso impulsi neuronali o interfacce digitali)?
All’interno di scenari in rapido mutamento, in cui la distinzione tra naturale e artificiale si fa sempre più sfumata, la riflessione sul linguaggio è più urgente che mai: ripensare il nostro rapporto con la parola, la tecnica e l’intelligenza significa ripensare il futuro stesso dell’esperienza umana.
La lingua in cui nasciamo non è solo uno strumento per comunicare: è la matrice che plasma la mappa del nostro cervello, il modo in cui pensiamo e conosciamo le cose, e persino la grammatica delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Nell’epoca della rivoluzione digitale, la comunicazione si è evoluta al punto da coinvolgere non solo altre specie viventi, ma persino le macchine, i codici, gli algoritmi: il linguaggio si trasforma, si espande, fino a ridefinire i confini dell’umano. Pur nella sua straordinaria complessità, il linguaggio umano non è isolato. Forme di comunicazione esistono anche tra delfini, pappagalli, api e scimpanzé, solo per citare alcuni esempi. Oltre a ripercorrere l’evoluzione simbolica di Homo sapiens, Damiano Cantone e Franco Fabbro ci guidano alla scoperta di questi affascinanti mondi e – intrecciando biologia, scienze cognitive e filosofia – in una riflessione critica sulle nuove forme di comunicazione che stanno ridefinendo il nostro mondo. Tecnica e linguaggio condividono da sempre una traiettoria comune: sono strutture portanti dell’identità umana. Il linguaggio non è solo un mezzo, ma una potente tecnologia simbolica che definisce ciò che siamo e il modo in cui abitiamo il mondo.
Il racconto biblico del Diluvio universale (Genesi 6-9) è uno degli episodi più noti dell’Antico Testamento. Non tutti sanno però che la descrizione della fine dell’umanità per mezzo di un cataclisma mandato dal Signore, il Dio degli Ebrei, ha dato luogo a secoli di discussioni e controversie tra fautori e avversari della verità letteraria di quella narrazione. Poi, il 3 dicembre 1872, fu data notizia della decifrazione di una tavoletta di argilla in lingua accadica, proveniente da Ninive e risalente probabilmente al II millennio a.C., che mostrava contenuti molto affini con la storia del diluvio biblico. Questo libro mette per la prima volta in dialogo il racconto biblico di Noè con gli antichi testi in lingua sumerica, accadica e greca, mostrando le dirette dipendenze dalle fonti precedenti, così come le volute discontinuità. E per la prima volta vengono anche offerti a fine volume i testi tradotti di tutte le fonti mesopotamiche, ebraiche e greche a nostra disposizione.
Uscito alla fine degli anni Settanta, questo volume è stato il primo a documentare organicamente nel nostro Paese la vita e l’opera, le vette e gli abissi di un animo tormentato come pochi altri, le cui mostruose creature di carta hanno influenzato scrittori del calibro di Stephen King e Michel Houellebecq. Ricercato dai collezionisti come uno dei libri più rari dedicati a Lovecraft, viene riproposto ora in una nuova versione, comprendente quattro capitoli inediti, tagliati per ragioni di spazio nella prima edizione, e altri saggi dedicati al Gentiluomo di Providence firmati dagli autori, tra le massime autorità negli studi lovecraftiani.
Il pensiero dominante ci ha convinto che la felicità sia una conquista individuale, non collettiva. Ma è solo l’ennesimo inganno di un sistema ingiusto, che alimenta la competizione e l’egoismo per dividerci. Un’alternativa esiste ed è collaborare, condividere, immaginare una società in cui stare bene non sia un privilegio per pochi, ma un diritto di tutti. Realizzarla non è solo un desiderio, è un atto politico necessario.
Di fronte alla classica domanda «Cosa fai nella vita?», pochissimi risponderebbero con qualcosa di diverso dal proprio lavoro; nessuno direbbe «Sono un buon amico» o «Cerco di migliorarmi come padre». Perché nella nostra società è quanto produci – non le passioni, le relazioni o gli ideali – ciò che ci definisce, una lente totalizzante attraverso cui giudichiamo il valore nostro e di chi ci circonda. E che determina quanto siamo felici, o profondamente tristi. Ma qualcosa sta cambiando. Sempre più persone rifiutano il ricatto dell’identificazione totale con la carriera, diffidano dell’etica del sacrificio che spesso maschera lo sfruttamento, mettono in discussione il culto del rendimento come unica misura del valore umano. Emerge, ogni giorno più nitida, la consapevolezza che il sistema in cui viviamo ci stia privando di tutto: del tempo, dello spazio, persino del linguaggio con cui pensiamo e parliamo. Resta da capire come mai e, soprattutto, come uscirne. In questo saggio lucido e provocatorio Alessandro Sahebi smonta le narrazioni dominanti nella nostra società – il mito della meritocrazia, l’ossessione per la performance, l’equazione tra fallimento economico e colpa individuale – per restituirci un’immagine più onesta dei meccanismi sociali che ci governano e degli strumenti con cui possiamo iniziare a disinnescarli. Lo fa con rigore, ma anche con uno sguardo politico che non rinuncia all’utopia. Perché, se è vero che non riusciamo a immaginare una vita più felice e che l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno riscrivendo le regole del mondo del lavoro, non ci restano che due alternative: continuare a soffrire o sforzarci, insieme, di costruire una società nuova. Una società in cui il lavoro non sia più l’asse portante dell’identità, ma una delle tante attività che rendono piena una vita. In cui «chi sei» conti più di «quanto vali».
«Di storie ne servono molte, moltissime, per non diventare schiavi di un solo punto di vista».
Michela Murgia ha scritto ogni giorno della sua vita senza mai smettere di chiedersi cosa è possibile cambiare, in sé e nel mondo, inventando storie. Raccontare, forse, era il suo modo preferito di pensare. Per questo i racconti raccolti in Anna della pioggia – scritti negli anni, magari letti una sera in una piazza e poi divenuti introvabili – sono pieni di luce, di vita e di idee. E restituiscono la voce mobile e folgorante di una delle più importanti scrittrici del nostro tempo.
Anna corre solo quando piove, e correndo ragiona di lavastoviglie, soprammobili, pupazzi: tutto, pur di non affrontare direttamente ciò da cui davvero fugge. Assieme a lei, lo straripante catalogo di personaggi che animano questa raccolta di racconti include pastori laureati e portieri notturni, corridori scalzi e bambini che recitano in sardo mentre gli alleati bombardano Cagliari, terroristi, bracconieri, finanzieri, pescatori di polpi e persino piante, capaci di mettere in crisi le certezze di uomini spavaldi. Ci sono potenti voci di donne che prendono la parola per la prima volta: non solo Morgana, ma anche Elena di Troia, Beatrice Cenci che rifiuta l’autorità di un padre abusante e Odabella che sfida quella di Attila, re degli Unni. E ovviamente c’è Michela, che racconta di quando pestava l’uva nelle vendemmie della sua infanzia rurale, o di come le sue preghiere abbiano resuscitato una delle falene allevate insieme al fratello, o ancora del perché chiunque nasca su un’isola finisca per avere un’identità in frantumi. Queste storie, disseminate come gemme di un tesoro piratesco senza forziere, non sono mai state raccolte in un libro prima d’ora. Perché Michela Murgia le ha lette ad alta voce in scuole e teatri occupati, le ha raccontate a chi andava ad ascoltarla nei festival, le ha pubblicate in diari scolastici, cataloghi di mostre, addirittura nel programma di sala di un’opera lirica. Altre sono comparse nel suo blog, sono state trasmesse in radio o sono uscite su giornali locali. Altre ancora hanno circolato solamente tra le amiche e gli amici di Michela Murgia, come privati incantesimi letterari. Anna della pioggia propone una scelta ragionata di questi racconti ritrovati, insieme ad alcuni più noti. La cura – in tutti i sensi che si possono dare al termine – è di Alessandro Giammei, che ha lavorato filologicamente sull’archivio digitale lasciatogli da Michela Murgia. Il risultato è un libro nuovissimo, sorprendente, che ruota con una vitalità vertiginosa intorno ai temi cari da sempre all’autrice: la Sardegna dei miti e della politica coloniale, il potere delle donne, il lavoro, le identità queer, la malattia, i miracoli e le paure del nostro secolo. Perché Michela Murgia non ha mai smesso di essere tenacemente appassionata del mondo e dei modi che scegliamo per abitarlo, capirlo, contrastarlo e raccontarlo: lo testimonia anche la varietà di registri, toni e stili che si muovono carsici racconto dopo racconto. Consentendoci di riscoprire prima di tutto il prodigioso talento letterario dell’autrice di Accabadora.
Nell’aprirci le porte del Ritz, Philippe Collin dimostra una cura appassionata per i dettagli che hanno fatto di questo luogo un simbolo, uno scrigno ineluttabilmente spalancato sulla Storia.
Baffi curati, giacca bianca e cravatta nera, cinquantasei anni appena compiuti, Frank Meier è il rinomato barman del Ritz di Parigi, il salotto più ricercato dall’élite culturale e politica dell’Europa della prima metà del Novecento; ma a partire dal giugno del ’40, con l’entrata dei tedeschi in città, al bancone i nuovi clienti sono gli uomini della Gestapo. Adattarsi, ora, è una questione di sopravvivenza. Ebreo di umili origini, da sempre accompagnato da un’insaziabile sete di riscatto, amante del bello e capace di diventare confidente di personalità straordinarie come Fitzgerald e Hemingway, Meier è il fuoco di questo romanzo, lo snodo intorno a cui si muove una corte variegata di personaggi, storici e non. Al Ritz, luogo incantato dove il tempo della guerra sembra essere sospeso, micromondo che diventa specchio dell’occupazione nazista di Parigi, si consuma la vicenda di uomini e donne alle prese con un nuovo potere e con il più semplice spirito di conservazione. Il destino di Meier, del suo assistente e dell’irresistibile Blanche Auzello tiene il lettore con il fiato sospeso, e l’atteggiamento del barman, sempre sul crinale tra resistenza e collaborazionismo, lo rende un eroe a metà, un essere umano ricco di sfumature e di infiniti dubbi. Dietro al bancone di legno scuro, Frank Meier deve salvare se stesso e chi ama.
Un momento storico così importante nella definizione dell’Europa è al centro di questo romanzo del 1963 di Jean Giono: uno scontro di caratteri su uno sfondo dettagliatamente ricostruito e fittamente popolato di indimenticabili comprimari, un’epica narrazione dal ritmo coinvolgente e rapinoso come solo la vera Storia può essere.
«Mi sono rimasti solo l’onore e la vita»: così il re di Francia Francesco I, fatto prigioniero dagli avversari, scriveva alla madre commentando la disfatta sul campo di Pavia, il 24 febbraio 1525, a opera delle truppe asburgiche di Carlo V. In quel frangente non si misuravano solo due sovrani, due eserciti e due regni, ma due visioni del mondo. Da un lato il re cristianissimo, gioviale e bon vivant, monarca di un tempo ormai tramontato, dall’altro l’imperatore malinconico, sgraziato, e forse già consapevole dei fermenti di violenza nascosti sotto gli splendori del Rinascimento. La battaglia di Pavia segna la fine di quella mitologica «gran bontà de’ cavallieri antiqui» rimpianta da Ludovico Ariosto, e l’inizio di un’inquieta modernità, con le sue masse di lanzichenecchi, i machiavellismi al potere, le guerre di religione, gli Stati assoluti, il dominio del denaro.
Un romanzo intenso e struggente, popolato da un’umanità che soffre ma ha la forza di rinascere, anche sotto le bombe, anche di fronte alla condanna di un amore che sembra impossibile. Perché anche nel fango dell’esistenza può nascere la bellezza.
«Generosa è la scrittura, uguale solo a se stessa, capace di soluzioni imprevedibili. E generosa è la visione dl mondo e degli esseri umani di Sara Gambazza.» – Chiara Gamberale
«Un porto sicuro per anime che resistono.» – Io Donna
Parma, 1922. Anita non è una moglie. Non è una madre come si conviene. Non ha un uomo, né una casa vera. Per il borgo è solo la Bórda, una puttana da evitare di giorno e cercare di notte. Ma Anita è molto di più: è una sopravvissuta, una mamma feroce e amorevole che farebbe qualunque cosa per proteggere le sue figlie da un mondo che le respinge e le giudica senza pietà. Mentre l’Italia si infiamma sotto la violenza degli squadristi e la fame stringe i vicoli della città, Anita combatte la sua guerra privata. Rosa, la primogenita, è una bambina attenta e generosa, costretta a diventare grande troppo in fretta. Ninfa, la più piccola, ha occhi troppo grandi per il suo viso magro e un dono oscuro che la tormenta. Tra rivolte, ingiustizie e segreti sepolti sotto la polvere delle strade, “Quando i fiori avranno tempo per me” è il racconto di una madre che non si arrende, di due bambine che diventano presto donne alla ricerca di un destino diverso, e di un mondo in cui essere poveri voleva dire essere invisibili ma mai rassegnati, pronti a lottare per sé stessi e per i propri simili.
A Guadalupa si verificano degli strani omicidi: tutti seguono uno schema definito, come se fosse un rituale mistico. L’ispettore Kancel e i suoi assistenti cominciano una corsa contro il tempo per fermare l’assassino: un’indagine in cui i confini tra magia nera e macchinazione diabolica si confondono.
Maestro dell’illusione e della manipolazione, Michel Bussi torna con un thriller coinvolgente e affascinante.
Guadalupa, dipartimento francese delle Antille, un paradiso tropicale di fondali marini, spiagge incantevoli e foreste lussureggianti. Un paesaggio da sogno scosso brutalmente dall’omicidio di un ricco costruttore, trafitto da una fiocina di fucile subacqueo e ritrovato sulla Scala degli schiavi, luogo simbolo dell’isola. Per il comandante di polizia Valéric Kancel è l’inizio di un incubo: insieme ai suoi assistenti, si lancia alla ricerca di un assassino che sembra non lasciare tracce se non intenzionalmente simboliche. Un serial killer che agisce sempre con lo stesso rituale e che a quanto pare sa molte cose di lui, di Valéric. Gli omicidi si susseguono, le indagini ristagnano. L’unico che sembra saperne qualcosa è il vecchio Évariste, per molti un ciarlatano, per molti altri un mago. Magia nera o macchinazione diabolica? Per il comandante Valéric Kancel e i suoi due collaboratori comincia allora una corsa contro il tempo in un’isola sull’orlo del caos.
Giappone, 1867. All’età di sedici anni, la vita di Ginko Ogino cambia per sempre. Nata in una delle più agiate e influenti famiglie della sua zona, viene data in sposa a un uomo che non ha mai visto e che non ama. Quando il marito, dopo ripetuti tradimenti, la contagia con una malattia venerea all’epoca incurabile, Ginko torna alla casa paterna e chiede il divorzio: tutto il contrario di quello che ci si aspetterebbe da una rispettabile donna sposata nel Giappone di fine Ottocento. Ma Ginko non desidera più essere rispettabile, e non nutre più alcun interesse per le rigide convenzioni che per anni l’hanno ingabbiata e avvilita. Ora, ciò che vuole è essere libera. Visitata da uomini nella clinica di Tokyo in cui la madre la porta per le cure, viene trattata con brutalità e pressapochismo da mani che non sanno come toccare il suo corpo. Umiliata e mortificata nella sostanza più intima del suo essere donna, Ginko non è più disposta a sopportare oltre: in un impeto di orgoglio e autodeterminazione, giura che diventerà medico lei stessa, per aiutare tutte coloro che come lei, nell’indifferenza generale, devono affrontare dolore e oltraggi. Ma raggiungere l’obiettivo appare difficile, se non impossibile – dato che Ginko si propone di essere la prima donna a ottenere una licenza medica nella storia del suo Paese. “Nascosta tra i fiori” è un’incredibile ed emozionante vicenda vera di libertà, riscatto e tenacia, che appassiona e coinvolge fino all’ultima pagina immergendoci nella vita, nelle aspirazioni e negli amori di una donna che ha avuto la forza di cambiare non solo il suo destino, ma anche quello di migliaia di altre e di un Paese intero.
“Le avventure di Sherlaw Kombs”, in cui tutti gli elementi tipici della narrativa poliziesca vengono abilmente esasperati e messi in ridicolo con ironia, sono la prima parodia delle storie del noto investigatore del 221B di Baker Street, nato dalla brillante penna di Arthur Conan Doyle, il quale aveva già pubblicato alcune opere con protagonista Sherlock Holmes, cioè i romanzi “Uno studio in rosso” (1887) e “Il segno dei quattro” (1890) e una dozzina di racconti, riuniti in “Le avventure di Sherlock Holmes” (1892). Nella collana in miniatura “Bonbon”, ideata e diretta da Enrico De Luca, è possibile trovare storie ignote o poco note di autori italiani e stranieri in edizioni integrali e di pregio. Attenzione: libri in miniatura non provvisti della scatolina e contenuti extra (disponibili solo sul sito dell’editore).
Marie-Helene Bertino ci regala un romanzo straordinario sul desiderio e l’appartenenza, sul sentirsi soli, sullo scoprirsi un po’ strani e sul soffrire di misofonia, un romanzo che esplora la fragilità e la resilienza della vita, descrivendo in maniera sorprendente e originale cosa significhi essere divisi tra due mondi, isolati in un luogo che è casa e allo stesso tempo non lo è.
«Una profonda riflessione su che cosa significhi essere una persona.» – The New York Times Book Review
«Un libro che raccomanderò a tutti per il resto della mia vita.» – Dakota Johnson
«Bertino ci regala un romanzo sul nostro reale e umanissimo desiderio di connessione con l’altro.» – Chicago Review of Books
«Divertente e dolente allo stesso tempo… Un romanzo notevolissimo.» – The New York Times
«Un risultato monumentale, un capolavoro che risplende.» – The Boston Globe
Nata nel settembre del 1977 a Philadelphia, Adina Giorno arriva sulla Terra proprio quando la Voyager 1 viene lanciata nello spazio insieme al suo prezioso disco d’oro. Con una sensibilità e uno spirito di osservazione fuori dal comune, Adina sa fin dall’età di quattro anni di essere diversa dagli altri. Grazie a un dispositivo per fax portato a casa dalla madre Térèse, infatti, si mette in contatto con la sua famiglia di origine, ad anni luce di distanza da lei, e scopre la sua missione: osservare e riferire le peculiarità degli esseri umani ai suoi superiori. Per anni Adina stessa sperimenta le angosce e le gioie dell’esistenza sulla Terra, e faxa resoconti sul crescere e vivere tra i terrestri, sui loro programmi televisivi, i centri commerciali, i rapporti di amicizia, gli animali, le stranezze del loro linguaggio. Ormai adulta, però, in un periodo di particolare vulnerabilità, decide di condividere le sue osservazioni in un libro. C’è la possibilità che non sia da sola?
Un tardo pomeriggio del 1988, Elizabeth Krohn non poteva prevedere che nel parcheggio della sua sinagoga con i suoi due figli sarebbe stata colpita da un fulmine e avrebbe vissuto un’esperienza di premorte. Una volta guarita, Elizabeth è cambiata, diventando improvvisamente in grado di interagire con i defunti e di fare sogni premonitori che predicevano eventi di cronaca. Il libro si divide in due parti; nella prima, Elizabeth racconta la sua incredibile storia. Nella seconda, il noto studioso J. Kripal colloca tali esperienze nel contesto delle tradizioni religiose e propone l’idea rivoluzionaria che siamo noi a dare forma alle nostre esperienze future attraverso il modo in cui affrontiamo le esperienze di premorte nel presente…
La storia dell’archeologia dalle origini ai nostri giorni, raccontata attraverso le vite di alcuni tra i più importanti studiosi: uomini e donne che hanno dato forma e sostanza alla disciplina, nel corso del tempo e in modi diversi.
Da Johann Winckelmann, che getta le basi dell’archeologia come storia dell’arte, a Mortimer Wheeler, a cui si deve uno dei primi manuali di scavo; da Gertrude Bell, instancabile studiosa dell’Oriente, a Thomas Lawrence, militare e spia, ma anche archeologo con la passione del Medioevo e dei castelli dei crociati. E poi Rodolfo Lanciani, autore di una straordinaria mappa di Roma antica, Mary Leakey e le sue grandi scoperte sui nostri antenati, e molti altri ancora…
Un mondo alle soglie di una nuova epoca. Una grande storia di amore, lealtà e vendetta sullo sfondo di una Napoli rinascimentale ricca di fascino.
Il grande ritorno di Arnau Estanyol
«Devo dire che Napoli rende davvero possibile un viaggio nel tempo. Ci sono luoghi che ti trasportano direttamente nel Quindicesimo secolo, e anche la planimetria, la configurazione delle strade aiutano. Come pure la pavimentazione scura, nera, di origine vulcanica. Nell’epoca che racconto, tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, molta vita avveniva per strada.» – Ildefonso Falcones, La Lettura
Regno di Napoli, 1442. Arnau Estanyol, conte di Navarcles, compagno d’armi e di caccia del re, è tra i conquistatori di Napoli e tra i membri più in vista della corte aragonese trasferitasi nella città conquistata. Nello sfarzoso palazzo che ha scelto come sua nuova casa, Arnau ascolta con grande attenzione le parole di Sofia, vedova abilissima nel tessere le trame della politica e nel camminare sul filo sottile dei rapporti tra gli spagnoli e l’antica aristocrazia napoletana ostile agli invasori, ne segue gli scaltri consigli e si abbandona all’affetto paterno per la figlia di lei, Marina. Ma nelle ombre che il sole di Napoli non riesce a dissipare, il fratellastro di Arnau, Gaspar, ricco e subdolo, sta congiurando contro il fratello per portargli via tutto, proprio a partire dalla fedele Sofia. Arnau lo conosce bene, ha già sperimentato la ferocia delle sue azioni, ma non riuscirà comunque a impedire che violenza e crudeltà si abbattano rovinosamente sulla sua nuova casa in terra straniera. Intanto anche a Barcellona le trame ostili contro la sua casata si infittiscono, e il nobile Arnau dovrà fare ricorso a tutte le sue arti per impedirne la rovina…
Cosa può dire Jane Austen oggi alla Gen Z, a duecentocinquant’anni dalla sua nascita? Una giornalista in crisi, che ritiene la Austen obsoleta. Una booktoker diciottenne che ha fatto della scrittrice britannica la sua eroina.
Un viaggio in Inghilterra, da Chawton a Bath, tra contrattempi e sorprese.
Una commedia frizzante e intelligente, che mette a confronto due generazioni e due visioni opposte del romanticismo e dell’emancipazione.
L’incarico della rivista è chiaro: andare nei luoghi di Jane Austen e capire perché, a duecentocinquant’anni dalla nascita, l’autrice di “Orgoglio e pregiudizio” è ancora così letta e amata, soprattutto dai più giovani. Di articoli e reportage Amelia Maini Moss − per i colleghi semplicemente la Mossa − ne ha fatti a centinaia, da ogni angolo del mondo. Cresciuta tra l’Inghilterra della nonna, da cui ha ereditato il nome, e l’Italia, è diventata una fotogiornalista di grido, prima di dedicarsi alla famiglia e mettere da parte penna e macchina fotografica. Sarà ancora in grado di realizzare un lavoro ben fatto? Nonostante le remore, Amelia decide di accettare. E senza saperlo inizia un viaggio che si rivelerà sorprendente. Quando arriva nello Hampshire, tra cottage suggestivi e villaggi idilliaci, la sua strada incrocia forzatamente quella di George ed Emma Dubois, padre e figlia, venuti apposta dal Canada per celebrare un’importante ricorrenza. Emma, diciottenne appassionata della Austen e ideatrice di un seguitissimo canale social, considera la scrittrice inglese la sua eroina; Amelia, invece, la vede come un’icona anacronistica e sopravvalutata. Tuttavia, immersa nei paesaggi che ispirarono i romanzi, dalla casa di Chawton ai palazzi di Bath, si trova a rileggere non solo Jane Austen, ma anche la propria vita e la propria visione della femminilità, del sentimento, del matrimonio e della maternità. Fino a scoprire, man mano che le tensioni cedono il passo a confidenze e a momenti di imprevista complicità, che anche nelle differenze si possono trovare risposte inaspettate. E che “non c’è incanto più grande della tenerezza del cuore”.
In questa preziosa e accurata biografia Andrea Wulf ripercorre i passi e i viaggi di Humboldt e gli restituisce il suo posto nel pantheon dei grandi esploratori e ricercatori, riaccendendo la luce su un protagonista della scienza che può essere considerato a tutti gli effetti il primo grande divulgatore moderno.
Quasi 300 piante, 100 animali, decine di minerali, fiumi e città prendono il nome da Alexander von Humboldt, e questo fa di lui l’uomo che ha dato il suo nome a più cose nel mondo. Naturalista e geografo, descritto dai suoi contemporanei come “l’uomo più famoso al mondo dopo Napoleone”, Humboldt fu uno dei personaggi più affascinanti e stimolanti del suo tempo. Tutta la sua vita è dedicata al viaggio e alla scoperta: esplora, scrive dei suoi viaggi e fa ricerche sulla natura con una curiosità che non conosce confini. Il suo anticipo sul resto del mondo è folgorante: sarà il primo a formulare teorie sui mutamenti climatici, l’ecologismo e contro il colonialismo, aprendo a una nuova idea di scienza democratica e inclusiva.
In un romanzo che avvince e affascina, Cinzia Giorgio scava nella leggenda delle streghe di Benevento, restituendo alle janare del Sannio la voce che è stata loro negata dalla storia: quella di donne sapienti, e per questo perseguitate, che hanno celebrato la vita.
Benevento, 1630. Corre, Bianca, attraversa il bosco col fiato in gola per tornare a casa. Conosce a menadito il sentiero, eppure avverte una presenza tra gli alberi: qualcuno la sta seguendo, ne fiuta nell’aria il sentore sgradevole. Non deve cedere alla paura, si dice, anche se proprio lì vicino sono state aggredite delle ragazze, e del vero colpevole non c’è traccia. Anzi, in città serpeggia la convinzione che siano state le janare, donne che – come lei, sua madre e sua sorella Maria – vivono ai margini di Benevento, conoscono i segreti delle piante e li usano per curare i malati. Per il protomedico della città, Pietro Piperno, le janare sono creature del diavolo: streghe, insomma, contro cui invoca l’intervento della Chiesa. La sua ossessione per loro si nutre del desiderio, non corrisposto, che prova per Maria. Così, quando lei sparisce, Bianca si troverà da sola a cercare la verità sul mistero della sua scomparsa. Anche lei è in pericolo ma è determinata a inseguire un destino di libertà e d’amore con un’unica e potente arma a disposizione: la sorellanza.
Teodora ha scoperto a sue spese che è impossibile tenere per sempre con sé le sue cinque bellissime figlie e che le deve lasciar andare. Sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, all’occupazione nazista della Grecia e alla morte del marito, la donna vive per molto tempo una vita solitaria in assenza delle figlie. Fino a che, dopo essersi sposate, aver viaggiato per il mondo e aver conosciuto tanto il romanticismo quanto la fama e la tragedia, all’infrangersi dei loro sogni, una dopo l’altra, fanno ritorno nella casa ai piedi del Monte Olimpo. Come se allontanarsi dalla residenza avita abbia scagliato su di loro una maledizione e non ci sia alcuna possibilità di felicità lontano da lì. Ma il tempo, come il fiume, scorre inesorabile e, dopo vent’anni, una nuova generazione, quella delle sue nipoti, è pronta a fare le proprie esperienze, ad andare alla ricerca del proprio paradiso e soprattutto a liberarsi dalla superstizione che chiunque lasci quella casa vi faccia ritorno per piangere sulle macerie di un’esistenza distrutta. Anche se il destino è sempre in agguato, è importante ricordarsi che i veri artefici della nostra sorte siamo noi e bisogna trovare il coraggio di abbandonarsi al fiume della vita… Perché il fiume sa dove portarci e quando farci tornare. Dall’acclamata scrittrice greca Lena Manta, una nuova e potente saga familiare che segue le vicende complicate e dolorose di sei giovani donne.
Jenny Dentiverdi non ha mai parlato con un essere umano prima d’ora, ma quando una strega viene gettata nel suo lago da una folla inferocita, qualcosa le dice che vale la pena salvarla. Temperance non sa perché il suo villaggio le si è improvvisamente rivoltato contro; sa solo che ha qualcosa a che fare col nuovo e maligno reverendo. Lei desidera soltanto poter tornare a casa da suo marito e i suoi figli. Per quanto non abbiano nulla in comune, queste due improbabili compagne d’avventura devono unire le forze in una missione magica per sconfiggere l’entità malvagia che minaccia la famiglia di Temperance, il lago di Jenny, e probabilmente ogni singola anima della Gran Bretagna.
Dal primo essere umano, forse ancora privo di un linguaggio, che si chiese se il mondo davvero finisse oltre la foresta in cui viveva, fino a Charles Darwin e Stephen Hawking, che hanno minato per sempre le basi del mito creazionista e messo in dubbio l’esistenza di Dio, il percorso del pensiero umano è sempre progredito prima di tutto grazie a chi ha dubitato. Andare con la mente oltre il dogma, la regola, la certezza condivisa, è il più potente strumento per aprire una possibilità di crescere e di conoscere ciò che ancora non si conosce. È un discorso che vale per la scienza, per la filosofia, per la medicina, ma anche per la politica, l’economia, la costruzione di qualsiasi socialità. E coltivare il dubbio è anche necessario per tutto ciò che dà colore e senso e direzione alla nostra vita. Possiamo essere qualcosa di diverso da ciò che i nostri genitori, il nostro nome, il nostro destino, hanno deciso che dovremmo essere? Potremmo essere più felici amando qualcuno di diverso dalla persona con cui stiamo? La vita che viviamo ci corrisponde davvero? Con la sua consueta semplicità, Gérard Thomas ci accompagna in una narrazione del cambiamento e ci suggerisce che tutto ciò che è la nostra esperienza umana non va dato per scontato, perché solo quando ci chiediamo se ciò che abbiamo davanti potrebbe essere diverso da com’è, possiamo considerarci esseri umani compiuti.
Il nuovo scrittore residente presso l’Athena College è il drammaturgo Connor Lawton, noto per la penna mordace e la lingua biforcuta. Dopo uno spiacevole primo incontro, il bibliotecario Charlie Harris torna a casa deluso ma viene accolto da una bella sorpresa: sua figlia Laura è in città e sostituirà un altro professore nel prossimo semestre autunnale. È una gran bella notizia, fino a quando non viene a sapere che chi le ha procurato questo nuovo lavoro è la sua vecchia fiamma, l’“odiato” Connor Lawton. Già, proprio lui. Prima che riesca a portare a termine la stesura dell’opera a cui sta lavorando, il drammaturgo viene trovato morto, assassinato, e Laura diventa la sospettata numero uno. Credendo ciecamente nella sua innocenza, Charlie e il suo braccio destro felino, Diesel, seguono la scia di indizi lasciata da Connor, costellata di amanti arrabbiate, acerrimi nemici e bizzarre ricerche in biblioteca. Devono scoprire il vero colpevole prima che la ragazza venga catalogata per sempre sotto la lettera A di assassina.
Il punto di partenza dell’analisi che Byung-Chul Han sviluppa in questo saggio è la natura proteiforme della violenza: cambia aspetto, si adatta alla logica e alle modalità del contesto socio-politico in cui si sviluppa e, soprattutto, agisce anche laddove sembra essere sparita. L’esame parte dalla violenza nelle sue manifestazioni macrofisiche: quella del sangue e del sacrificio, del sovrano sul sottoposto, quella senza sangue delle camere a gas, quella del linguaggio offensivo. In questo senso essa è espressione di un “eccesso di negatività”: è infatti possibile esclusivamente dove c’è antitesi, tensione bipolare tra un Ego e un Alter, un Interno e un Esterno. Nell’epoca odierna, con la progressiva “positivizzazione della società” − ovvero lo smantellamento della negatività e della contrapposizione e l’appiattimento delle differenze − anche la violenza sembra svanire, almeno nelle sue forme tangibili, corporee. Ma quello a cui assistiamo, sostiene il filosofo, è in realtà un suo trasferimento sul piano psichico, all’interno del soggetto. È, quella odierna, una violenza microfisica, un pericoloso “eccesso di positività” che si manifesta “in termini di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione, iperattenzione e iperattività”, fondendosi e confondendosi con la sua controparte: la libertà. Nella società della prestazione il soggetto, formalmente libero, è vittima di se stesso e delle pulsioni che ha introiettato. “La storia della violenza giunge a compimento in questa coincidenza tra carnefice e vittima, tra signore e servo, tra libertà e violenza”.
Cosa lega un blog le cui illustrazioni nascondono una scena spaventosa, lo scarabocchio di un bambino che contiene un oscuro messaggio e uno schizzo fatto dalla vittima di un omicidio nei suoi ultimi istanti di vita? Un romanzo con una trama inquietante, unica, dove solo una serie di immagini, da comporre e interpretare, permette di scoprire l’identità di un assassino.
Tradotto in tutto il mondo, scritto da un autore che cela il proprio volto dietro una maschera bianca, Strani disegni ha rinnovato il crime contemporaneo e ridefinito i confini dell’inquietudine. In Giappone ha venduto oltre 1,6 milioni di copie.
«Con le sue immagini impressionanti, Strani disegni è un’esperienza di lettura immersiva, mai vista prima».
Tokyo Shimbun
«Strani disegni ha conquistato il mondo dell’editoria».
Sponichi
«Inquietante e pieno di suspense. Un fenomeno editoriale».
The Times
«Ingegnoso, innovativo, appassionante».
The Guardian
«Un libro che ha tutti gli ingredienti per terrorizzare».
El Mundo
Siamo nel 1830: il grande gioco fra Gran Bretagna e Russia per il potere e l’influenza in Asia centrale è in pieno svolgimento. Nel cavalcare verso Kabul, il giovane e ambizioso Alexander Burnes sventola la bandiera inglese, dopo aver dato un malinconico addio alla fanciulla amata, la nobile e anticonformista Bella Garraway. Da San Pietroburgo, intanto, è in viaggio verso la stessa meta l’egualmente giovane e ambizioso Yan Vitkevich. Entrambi vogliono ingraziarsi l’emiro Dost Mohammed, imperatore degli Afghani, e così facendo renderlo alleato, ovvero in prospettiva suddito, delle loro rispettive nazioni. Il cast di caratteri presente nel romanzo non si ferma però qui: ci sono ufficiali e mogli di ufficiali, avventurieri e agitatori, linguisti e archeologhi, uomini di fede e intrepidi credenti: una babele di lingue, di religioni, di usi e di costumi. Tanto l’Afghanistan si mantiene misterioso, tanto gli sforzi occidentali, perché anche la Russia qui è Occidente rispetto a quell’Oriente, si illudono di poterlo penetrare. Finirà in tragedia, ancor più sanguinosa in quanto fin dall’inizio annunciata e però dai diretti interessati non compresa. Se, come diceva Vladimir Nabokov, il romanziere dev’essere un raccontatore di storie, un insegnante e un incantatore, in “L’Impero del gelso” Philip Hensher è trionfalmente tutte e tre le cose. Mischiando abilmente realtà e fantasia, fonti storiche e fonti letterarie, Hensher conduce il lettore in un mondo affascinante quanto terribile che ha nella Prima guerra afghana il suo culmine. Amore, morte, passione, cecità, odio, fedeltà e memoria ne scandiscono le pagine e fanno di “L’Impero del gelso” un capolavoro che sfida il tempo. Edizione numerata da 1 a 1000.
Due anime, un destino. Una storia d’amore senza tempo. Un romanzo per commuoversi e sognare
Sono poche le alternative per una giovane vedova senza un soldo e con due figli piccoli, se non accettare la carità dei parenti e vivere praticamente al loro servizio. Ma Lucy Muir non ha intenzione di essere tiranneggiata dalla suocera e dalla cognata, rimanendo silenziosa e invisibile nel suo angolino. Perciò, quando le si presenta l’occasione di affittare – per pochissimo! – il pittoresco Gull Cottage, in riva al mare, la prende al volo. Ma c’è un motivo per cui nessuno, prima di lei, ha resistito a lungo in quella casa, e quel motivo è la presenza del fantasma del precedente proprietario, il capitano Gregg. Sboccato e fanfarone, sicuro di sé ma, in fondo, dal cuore d’oro, il capitano mal sopporta di avere coinquilini… in carne e ossa. Lucy, però, a differenza degli altri, non si fa spaventare dal fantasma, anzi finisce per apprezzarne la vivace compagnia; e allo stesso tempo il capitano Gregg trova uno scopo nell’aiutare la determinata, indipendente vedova a rifarsi una vita. Nasce così tra loro un’amicizia che si trasforma in un sentimento ben più profondo e tenero, anche se impossibile. Oppure no?
Attraverso un lungo e appassionante “viaggio” tra XVI e XVIII secolo, Roger Chartier ci conduce nel mondo dei libri di finzione che contengono mappe e carte geografiche dando forma visiva ai luoghi, reali e di fantasia, in cui si muovono i personaggi letterari.
L’indagine dello storico prende le mosse dalle mappe degli itinerari di don Chisciotte sino ad arrivare a quelle presenti nelle edizioni delle opere di Ariosto e Petrarca, con particolare attenzione a due “genealogie”. La prima, inglese, mostra i viaggi di un esploratore immaginario presentato come reale: si va dai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift all’Utopia di Thomas More. La seconda, francese e allegorica, ha inizio con la Carte de Tendre, inserita nella Clélie di Mademoiselle de Scudéry, e include le carte galanti o polemiche che ne seguirono l’esempio.
A seconda dei tempi e dei luoghi, le mappe della letteratura di finzione hanno svolto ruoli diversi. Hanno rappresentato mondi alla rovescia, satirici, critici o utopici; hanno alimentato la ragione e il sogno, al di là del testo in sé, lasciando immaginare ai lettori, sulla scorta delle nuove scoperte geografiche, uno spazio dai contorni e dai confini molto più estesi di quelli che vivevano nella loro quotidianità.
Il volume propone un viaggio in uno dei crocevia culturali, politici ed economici più significativi del medioevo.
Attraverso una narrazione serrata e rigorosa l’autore ripercorre la storia della Rus’ dalle origini alla frammentazione, esplorandone le dinamiche sociali, le istituzioni, i rapporti coi poteri vicini: Bisanzio, l’Europa e le steppe dell’Asia.
Il testo offre una visione delle vicende della Rus’, dai principi Rjurikidi alla cristianizzazione, dalle rotte commerciali ai conflitti dinastici, tracciando il ritratto di una società complessa, un ponte fra Oriente e Occidente, le cui eredità culturali e politiche risuonano ancora oggi.
Una lettura che permette di comprendere le radici dell’Europa orientale e l’evoluzione di un’entità
statuale che ha dato un contributo decisivo al medioevo europeo, e non solo.
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